L'affido/2. «Apriamo le porte di casa ai piccolissimi in attesa di essere adottati»
Silvia e Stefano dell'Associazione "La Casa di Oreste"
«Guardo negli occhi questa bambina di quattro mesi che è con noi dal 2 ottobre, festa dei santi angeli custodi, e mi sento amata da Dio che mi ha fatto questo dono grande. Capisco che qualcuno potrebbe leggere nelle mie parole un desiderio di gratificazione, come se la decisione di aprire le porte di casa a un bambino in difficoltà fosse una sorta di patente per sentirsi più buoni. Ma non è così. La nostra decisione nasce da un senso di giustizia umana, da un dovere morale che ancora prima di sposarci ci ha fatto decidere di essere accoglienti per le persone più fragili. E così abbiamo fatto».
Mentre lo racconta la voce di Silvia si appanna per l’emozione. E si intuisce che per lei e per il marito Stefano, la scelta di accogliere in casa un bambino segnato dalle prove di una famiglia che non ce la fa, è proprio qualcosa che nasce dal profondo. «Sappiamo che sono come figli nostri, ma non sono figli nostri. Sono bambini e ragazzi a cui ci sentiamo di dare tutto l’amore senza attenderci nulla in cambio. Lo facciamo e basta. Perché è giusto così», osserva ancora Silvia. Lei insegnante di religione, lui operaio. Vivono nel Trevigiano e fanno parte dell’associazione “la Casa di Oreste”, legata alla “Papa Giovanni XXIII” che in realtà include anche famiglie affidatarie di provenienza e ispirazione diversa. «Quando ancora eravamo fidanzati ci siamo detti: se non riusciremo ad avere figli, diventeremo una famiglia affidataria. Non abbiamo ipotizzato l’adozione, ma proprio l’affido, ci sembrava qualcosa maggiorente segnato dalla gratuità, dalla logica di donare amore e attenzioni in modo incondizionato ». Poi i figli sono arrivati, Rachele che oggi ha 18 anni e Riccardo che ne ha 15. Ma in quei primi anni di matrimonio il progetto affido è stato congelato. Non archiviato, solo rimandato in attesa dei tempi opportuni. Tanto che nel 2017, con i figli già grandicelli, Silvia e Stefano decidono di riprendere il discorso.
« Avevamo, e abbiamo ancora, una parola d’ordine, “se non è impossibile farlo, dobbiamo farlo”. Con questa idea ci siamo rivolti a un’associazione di volontariato con cui però non siamo entrati in sintonia. Ci proponevano dei progetti che non tenevano conto della nostra realtà familiare e così ci siamo rivolti altrove». La prima esperienza arriva con un bambino di sette anni, una situazione difficile. Il piccolo, con gravi problemi psichici, aveva già sulle spalle un lungo periodo in comunità. «È rimasto con noi solo otto mesi perché aveva bisogno di affetti esclusivi e di assistenza specialistica. L’abbiamo sottoposto a una visita psichiatrica e la diagnosi è risultata abbastanza pesante. Eravamo contenti di accoglierlo ma la situazione in casa era diventata molto complicata, i rapporti sempre molto tesi e anche i miei figli hanno vissuto momenti di grande difficoltà». Così il piccolo torna in comunità e per i due genitori affidatari è il momento degli interrogativi e delle domande. «Ma cosa abbiamo sbagliato? Non siamo stati in grado di amarlo abbastanza?». Per digerire il senso di frustrazione servono un po’ di mesi e una riflessione attenta. Determinante anche l’incontro con la “Casa di Oreste”.
Nasce così la decisione di ripartire con l’affido ma in una dimensione diversa. «Saremmo diventati una famiglia di “pronta accoglienza”, quelle che in 24 ore devono dare la disponibilità per accogliere bambini piccolissimi, spesso neonati abbandonati alla nascita che hanno bisogno di assistenza immediata in attesa di andare poi in adozione». La prima bambina, in realtà, rimane con loro per 13 mesi. Conoscono e aiutano anche la madre naturale, tanto che anche oggi Silvia e Stefano sono per lei “famiglia d’appoggio”. Intervengono nei momenti di bisogno, tamponano un’emergenza, ci sono quando serve. Nel frattempo, ci sono altre esperienze d’accoglienza, compresi piccoli disabili e prematuri. «I servizi sociali ci sono sempre stati vicino, come fondamentale è il rapporto con la “Casa di Oreste”, non solo per i corsi di formazione, ma per il confronto costante con le altre famiglie. Ascoltare le esperienze di altri genitori, successi ed errori compresi, è un modo insostituibile di ricaricare le pile, di ripeterci perché lo facciamo e, soprattutto, perché non potremmo farne a meno. È una scelta di coscienza che ci fa sentire più autenticamente famiglia. Anche i nostri figli ne sono convinti. Per loro – conclude Silvia - tutti i bambini che arrivano sono fratellini e sorelline a cui voler bene».