Gli altri genitori. «Adozioni, basta con la narrazione del dolore»
«Il bionormativismo esclude le famiglie adottive ed è evidente nell’assenza di rappresentazione, ad esempio al cinema, nelle pubblicità, nei testi scolastici; inoltre nei titoli dei media l’adozione appare sempre come qualcosa di problematico. E per quanto riguarda le adozioni nazionali, abbiamo pochi dati statistici». Il quadro impietoso arriva da Monya Ferritti del Coordinamento Care, che firma il blog Il corpo estraneo, con le omonime pagine Facebook e Instagram, autrice dei volumi “Il corpo estraneo” e “Sangue del mio sangue” (edizioni Ets).
«Nell’immaginario collettivo c’è un’unica famiglia declinata al singolare, una gerarchizzazione dei modelli familiari: i media, la società, le istituzioni spesso amplificano un solo modello. L’adozione soffre anche per una mancanza di prospettiva che altre epistemologie e discipline potrebbero arricchire: Il punto di vista è quello psicologico che ha uno sguardo clinico, con un’assenza di etica, filosofia, sociologia ecc. Anche per questo assistiamo a una polarizzazione delle famiglie adottive: o salvatrici con un ruolo messianico, o sprovvedute», denuncia Ferritti, intervenuta a fine novembre al convegno annuale del Coordinamento, ente del terzo settore che dal 2009 riunisce circa 40 associazioni familiari con 5 mila soci e rappresenta 25 mila famiglie adottive e affidatarie in tutta Italia.
“Il barometro culturale. Le rappresentazioni dell’adozione e dell’affido nella società” il tema scelto per un confronto «sulle rappresentazioni sociali e le narrazioni riguardanti il fenomeno dell’accoglienza familiare e sull’impatto di stereotipi e pregiudizi sulla vita delle persone coinvolte», ha spiegato la presidente Anna Guerrieri, puntualizzando: «La rappresentazione delle minoranze, come chi adotta e affida, è molto importante». Infatti il Coordinamento Care ha curato il documento “Media&Adozione”, guida pratica costruita per aiutare i media nell’utilizzo corretto e appropriato delle parole e dei termini specifici correlati al mondo dell’adozione e dell’affido. Un testo «frutto di un lavoro condiviso di rappresentanti di associazioni del coordinamento», ha spiegato Valentina Colonna, convinta «dell’importanza e dell’uso adeguato di ogni parola per una nuova cultura».
L’intenzione è «di contribuire a un attento trattamento informativo dell’adozione e dell’affido, contesti complessi e mutevoli, e spesso non facili da raccontare. Si punta a fornire strumenti e risorse per aiutare i media nell’utilizzo corretto e appropriato delle parole e dei termini specifici correlati al mondo dell’accoglienza in ambito familiare, affinché anche nel campo dell’informazione possa prevalere l’interesse superiore delle persone di minore età e della loro storia personale».
Un percorso per nulla scontato, dato che nei giornali si continuano a citare «orfanotrofi che in Italia non esistono più, sostituiti dalle comunità e dalle case famiglia». Un luogo comune, così come «la narrazione solita del dolore, il linguaggio paternalistico e superato della doppia nascita, il riferimento al cuore (genitori di cuore) per distinguere questo tipo di genitorialità», ha sottolineato ancora Ferritti. «A chi ha una storia di affido o adozione viene permesso di raccontarsi nella cornice di tre emozioni: rabbia, riconoscenza, sofferenza. C’è molta retorica riferita alla generosità da parte delle famiglie che hanno “salvato” i figli adottivi: salvezza, coraggio, dono, riconoscenza, fortuna, dolore sono parole killer. Molto spesso chi ha una storia di affido e adozione viene spinto a raccontarsi a partire da quello che non ha: una sorta di disabilizzazione di chi ha un background di questo tipo, invece di vedere che i ragazzi adottati hanno avuto legami ed esperienze, hanno una storia con aspetti anche positivi. A volte c’è una iper visibilizzazione delle storie individuali, rappresentate con vittimizzazione», ha osservato Ferritti, segnalando “This is us” come «una delle serie più belle sulla genitorialità adottiva».
Ma com’è percepita la persona con background adottivo? «Come straniera», risponde Laura Ferrari, del Centro di ateneo Studi e ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica, che ha svolto una ricerca proprio su questo tema. «La diffusione di questi stereotipi ha influenze significative nella crescita degli adottati. Ridurre il divario fra ciò che gli altri pensano di me a ciò che sono rappresenta un processo di riconoscimento di sé per sviluppare un’identità positiva». Infatti «la percezione che l’adolescente adottato ha di come è percepito dagli altri dal punto di vista etnico influenza la sua identità etnica». In uno studio svolto quest’anno anche dalla professoressa Ferrari su 199 adolescenti nati nei Paesi dell’Est Europa e adottati in Francia (50), Italia (59), Norvegia (25) e Spagna (65), «più della metà dei partecipanti ha riferito di essere stata vittima nei 2 mesi precedenti di episodi di bullismo a scuola da parte di coetanei: il 20% ha subito ripetuti e frequenti episodi di vittimizzazione e un altro 37% ne è stato vittima una o due volte negli ultimi 2 mesi, con molestie verbali ed esclusione sociale come forme più comuni di vittimizzazione».
Purtroppo «gli adolescenti con background adottivo che vivono esperienze più frequenti di bullismo, mostrano con maggiore frequenza problemi emotivo-comportamentali. Alti livelli di percezione di discriminazione sono associati a maggiori problemi emotivo-comportamentali, depressione, problemi del sonno, bassa autostima». Infatti, ha commentato Ferrari, «lo sviluppo socio-emotivo è legato anche alla qualità della vita attuale, all’integrazione negli ambienti di vita e con i coetanei».