Reportage. Polonia, sovranisti per la Ue ma pronti allo sgambetto
La manifestazione europeista della Fondazione Schuman sfila per il centro di Varsavia
Anche i filari di mele, nell’ampia conca della Vasovia, sembrano ascoltare Wojciech Krawczyk, che ha appena parcheggiato il furgoncino davanti al cancellone della sua villetta. «L’Europa ci aiuta», ammette senza esitazione. «Riceviamo delle sovvenzioni per la cura del terreno», dice guardando la piazzetta deserta del suo villaggio: 700 persone nonostante il castello che ricorda la regina Bona Sforza, venuta nel ’500 dall’Italia a sposare il re di Polonia.
Giovane agricoltore di 33 anni, proprietario di dieci ettari di terreno a Czersk, è uno dei tanti beneficiari della Pac, la Politica agricola comunitaria: di certo una svolta per l’attività che occupa il 30% della forza lavoro polacca, che vive grazie a una piccola-media impresa familiare molto simile a quella italiana. Molti di questi agricoltori dopo il 2004 – l’anno dell’adesione all’Ue – si decisero ad aprire un conto corrente bancario per ricevere le sovvenzioni decise a Bruxelles.
«È giusto quanto serve per conservare il terreno», commenta. Da un minimo di 250 euro a un massimo di 700 euro l’anno, in base a rigorosi parametri che Wojciech moltiplica per 10, tanti quanti sono gli ettari di sua proprietà. A questi, «si devono aggiungere i fondi per l’ammodernamento». In 15 anni il contadino polacco è riuscito a comprare il trattore, le condotte per l’irrigazione a goccia, le piattaforme per la raccolta delle mele in quello che è il più importante distretto di esportazione delle mele d’Europa, davanti pure al consorzio della Valle di Non. «Negli ultimi due anni ci sono state gelate che hanno rovinato il raccolto. L’ultima nella notte fra l’8 e 9 maggio. D’estate, invece, combattiamo contro la siccità». Far quadrare i conti è sempre difficile, e nei supermercati di Varsavia ancora si ricorda una svendita straordinaria di mele per sovrapproduzione a un centesimo di euro al chilo. Sembra un secolo fa quando, caduto il muro di Berlino e fallito il sistema dei “kolchoz”, da Germania e Austria venivano regalati i trattori per far riprendre il lavoro nelle campagne. «Se restiamo in Europa continueranno a venirci distribuiti i fondi. Ma ne servirebbero di più», afferma sicuro Wojciech. Andrà a votare il 26 maggio? «Ho una prima comunione, non so. Ma non voterò per il Pis», risponde con un sorriso beffardo. A Gora Kalwaria, sulla strada per Varsavia la signora Wladyslawa – il cognome preferisce non dirlo – con la sporta della spesa in mano risponde: «Sono contenta che la Polonia sia entrata in Europa». E pensando al 26 maggio sorride: «Mi piace il governo del Pis».
Pochi chilometri più in là inizia la circonvallazione di Varsavia – anche questa come tutte le infrastrutture cofinanziata dai fondi Ue – è presidiata solo da manifesti del P.O. (Piattaforma civica), principale forza di opposizione attorno a cui è costruita la Coalizione europea di centro-sinistra. Questa arteria potrebbe essere uno dei tanti confini simbolici – fra campagna tradizionalista e città cosmopolita – di un Paese che va al voto per l’Europarlamento spaccato in due come una mela. In realtà, quello del 26 maggio, è solo il primo tempo di una partita che avrà come secondo tempo le elezioni politiche di ottobre e nel 2020 – i “tempi supplementari” – la sfida per eleggere il presidente della Repubblica. «Adesso non riusciamo più nemmeno a darci la mano fra amici e colleghi vicini ai diversi schieramenti: non era mai successo», ti spiega un vecchio militante di Solidarnosc preoccupato dall’asprezza del dibattito politico.
Rientrati a Varsavia, a due fermate dal centro sulla linea 2 del metro, il quartiere Wola – fino a 20 anni fa sobborgo operaio con stabilimenti chimici e meccanici – ti accoglie con la spettacolare torre Warsaw Spire, a un centinaio di metri dalla sede di Frontex, l’agenzia dell’Ue per il pattugliamento delle frontiere. I cantieri di alcuni grattacieli in costruzione non si arrestano mai, neanche di notte, assorbendo mano d’opera straniera in un settore in cui non esiste disoccupazione: un “boom” ancora in corso in un Paese con previsioni di crescita ancora tranquillamente sopra il 3%. Un benessere, come un vento di tramontana che spira sicuramente anche da Bruxelles, che ha portato in tre lustri di Ue e a trent’anni dalla rivoluzione del 1989, a un cambiamento del “paesaggio umano”. Così, a due passi dalla centralissima rotonda Charles de Gaulle, ci si imbatte nella “Dom Partii”, la Casa del partito: il vecchio simbolo del potere assoluto sovietico che ora ospita le vetrine di una concessionaria della Ferrari e un negozio della Mont Blanc per i “nuovi ricchi” in un Paese dove lo stipendio medio di un impiegato raggiunge ancora a fatica i mille euro al mese. Uno sviluppo che non risplende nella provincia e per cui il polacco medio non sembra avere debiti di riconoscenza verso Bruxelles: alle Europee del 2014 andò a votare uno striminzito 24%. Anzi, dopo la vittoria nel 2015 del Pis, il partito di destra guidato da Jaroslaw Kaczynski, gli equilibri con Bruxelles si sono molto complicati. La riforma della giustizia del 2014 che ha cercato di mandare in pensione una generazione di giudici costituzionali e unire nel ministro della Giustizia anche la figura del procuratore generale ha fatto scattare l’inchiesta dell’Alta corte Ue. Questo mentre la propaganda del Pis lanciava la parola d’ordine di «Godnosc», “dignità” nazionale da difendere nei palazzi di Bruxelles e Strasburgo chiedendo «dobra zmania», un “buon cambiamento” di una Unione Europea che metterebbe a rischio l’identità cattolica della Polonia. Da qui, pure, la decisione di chiudere le frontiere ai profughi provenienti dal Mediterraneo. Il tradizionale nazionalismo polacco, ora allineato con il sovranismo del gruppo di Visegrad, che idealmente si riunisce il 10 di ogni mese nella cattedrale di Varsavia per una Messa che ricorda le vittime della tragedia aerea di Smolensk: Lech Kaczynsky, la moglie Maria assieme a membri del governo e alti ufficiali. Un modo per rinnovare, assieme al lutto, il risentimento per il «complotto» di Mosca.
Un sondaggio di metà aprile, che ha misurato una base pro-Europa dell’82% – dicono molti analisti a Varsavia – ha molto moderato i toni. Ma lo scontro politico con il blocco di centro sinistra che nel 2014 ha visto il leader di Piattaforma civica, Donald Tusk, catapultato al vertice del Consiglio europeo è a tutto campo. Le celebrazioni per il quindicesimo anniversario di adesione all’Ue sono state una sfilata di europeisti, in gran parte estromessi dalla stanza dei bottoni e considerati dal governo appiattiti sulle direttive Ue. Sabato la “Gazeta Wyboreza” titolava una ampia intervista a Tusk: «Le democrazie liberali devono mostrare i muscoli». Battaglia all’ultimo voto, cercando consensi fra i tanti indecisi. L’“idraulico polacco” ora non disdegna il doppiopetto, ma continua a turbare i sonni del Vecchio mondo.