Innovazione sociale. Talking Hands: l'integrazione "cucita" a macchina
Si può fare innovazione sociale grazie a scampoli di tessuti preziosi, a macchine da cucire recuperate, a spilli e a carta-modelli? Si può rispondere alle richieste di integrazione sociale ed economica partendo da centinaia di pezze di kitenge, il suggestivo tessuto in cotone della tradizione Swahili, o del più celebre (in Europa) wax, nato in Indonesia ma arrivato in Africa seguendo strane e impreviste rotte? Sì se a disegnare, tagliare, cucire, seghettare, martellare e verniciare sono le mani di chi ha attraversato il mare per non morire. Parliamo di rifugiati e rifugiate, migranti, richiedenti asilo che una volta imparato un mestiere o perfezionato abilità acquisite nei luoghi d’origine, sono diventati sarti, falegnami, fabbri, arrivando con il tempo a progettare intere collezioni di abiti fashion (mascherine comprese) e pezzi di design nonché a trasformarsi in produttori di innovazione sociale e ambientale, in creatori e 'auto-gestori' di inclusione e solidarietà. Questo è quanto accade da anni a Treviso grazie ad un originale progetto chiamato "Talking Hands", ideato e sviluppato nel 2016 da Fabrizio Urettini, graphic designer, art director e attivista trevigiano per i diritti umani. "Talking Hands" ha saputo creare inediti networks relazionali capaci di abbattere ogni frontiera e di dare vita a vere e proprie comunità, a collaborazioni importanti con il tessuto imprenditoriale. L’esordio è avvenuto in un momento storico particolare, quando a Treviso, città a lungo governata dalla Lega, erano arrivati 2mila immigrati, quasi tutti giovani al di sotto dei 28 anni, provenienti soprattutto dall’Africa Subsahariana, ospitati in centri di accoglienza allestiti all’interno di caserme dismesse. Vivevano in condizioni di inattività e marginalità, senza la possibilità di interagire con la popolazione, di apprendere la lingua e di sviluppare competenze utili ad un inserimento lavorativo.
«Che cosa sapete fare? Che cosa vi piacerebbe fare da grandi?' Alle domande che ad un certo punto abbiamo loro rivolto hanno risposto in maniera diversa: c’era chi sapeva fare il falegname, chi il fabbro, chi possedeva rudimenti di sartoria – spiega Urettini –. Abbiamo allora cominciato ad investire per creare dei laboratori permanenti con annessi corsi di italiano e di alfabetizzazione di base, consolidando quello sartoriale per i minori rischi per la salute, le maggiori possibilità di inserimento professionale e la lunga tradizione che il tessile ha in questo territorio». Quasi tutti i futuri sarti (al principio una decina) sapevano cucire ma non avevano idea di come si usasse un cartamodello: a differenza di quanto avviene in Europa, nelle sartorie artigianali africane i capi vengono infatti cuciti sulla persona. Ad aiutarli ad impararne la funzione e l’utilizzo sono stati gli insegnamenti di alcuni professionisti appassionatisi al progetto fin dal primo momento: lo stilista londinese Anthony Knight, docente di Modellistica presso il dipartimento di Design della moda allo Iuav di Venezia e le sarte e modelliste Camilla Grosso e Valeria Marchi. «Il passo successivo è stato l’avvio di una collaborazione con lo storico Lanificio Paoletti di Follina, in provincia di Treviso: assemblando i tessuti di pregio scartati dall’azienda per via delle loro dimensioni (troppo ridotte per essere impiegate) con i più famosi wax e con altre stoffe tradizionali africane, abbiamo realizzato i nostri pezzi unici – continua Urettini –. Si tratta di giacche, kimono, top, pantaloni, bluse, cappotti, panciotti dalle linee contemporanee e double face, confezionate con i tessuti che acquistiamo da un’azienda in Costa d’Avorio di cui conosciamo la serietà e l’attenzione verso i temi della sostenibilità sociale e ambientale. Da sempre, infatti, poniamo grande cura nei confronti della filiera dei materiali e alla loro tracciabilità: insistiamo molto sul recupero etico degli scarti e sul rispetto dei diritti dei lavoratori». A mano a mano che il progetto cresceva si è proceduto al recupero di macchine da cucire vecchie ma in buono stato e di altre attrezzature con le quali sono state pensate e sviluppate piccole produzioni; è stata avviata una partnership con il movimento culturale (quasi) tutto al femminile 'Wax Up Africa' di Ginevra e una sinergia, divenuta con il tempo una solida amicizia, con l’antropologa francese Anne Grossfilly, consulente della maison Dior. Attualmente animato da un nucleo di quattro-cinque sarti e sarte a cui si uniscono di volta in volta stagisti, soprattutto provenienti dalla Scuola di design di Ginevra, e studenti, l’atelier sta affrontando sfide nuove e complesse come, ad esempio, la delicata questione della valutazione dell’impatto delle sue collezioni sull’ambiente e il perfezionamento della sua strategia commerciale.
«Per capire quanta acqua consumiamo, quante materie prime riciclate o prodotte in maniera sostenibile usiamo, stiamo lavorando con una società di giovani ingegneri di Busto Arsizio, la Engineer3D; per quanto riguarda invece l’aspetto commerciale, pur continuando a dialogare con il mondo dell’equo e solidale, da tempo abbiamo deciso di imboccare un’altra strada», precisa il designer. «Abbiamo per questo aperto un e-commerce dove pratichiamo la vendita diretta delle nostre creazioni, così da evitare gli inevitabili rincari, anche del 130%, messi in atto dai negozi di abbigliamento, ma ci piacerebbe molto poter avere uno spazio fisico tutto nostro». Oggi, però c’è bisogno di nuovi investimenti, di attori che credano nel progetto e consentano il passaggio allo step successivo: la creazione di una cooperativa che renda possibile contrattualizzare i lavoratori.