Proposte. Riconoscere la propria fortuna con una «good tax» per il bene comune
L’arrampicata inclusiva al Dynamo Camp di Limestre (Pistoia)
Quanto di quello che ognuno di noi ha costruito nella vita, ciò che in definitiva è, dipende esclusivamente dal proprio merito (o demerito) e quanto invece da una generica fortuna (o sfortuna)? Certo, le scelte personali, l’impegno e la fatica che ci si mette nel costruire la propria esistenza contano eccome. Tendiamo però a sopravvalutare il peso di questi fattori. A ricondurre l’intera ragione del nostro successo al talento personale e all’abnegazione nel metterlo a frutto. Dando invece per scontate, come fossero un diritto naturale, le condizioni più o meno favorevoli nelle quali siamo nati e per accessorio l’apporto delle persone che via via incontriamo nel corso dell’esistenza, in realtà molto spesso decisivi. Se invece provassimo a porre su una bilancia da un lato il merito e dall’altro la fortuna vedremmo che il peso della seconda è decisamente maggiore. Quantomeno per chi come noi nasce in un Paese democratico, assai sviluppato, con un sistema sanitario di alto livello, per la gran parte è in condizioni di buona salute, cresce in una famiglia, ha la possibilità di studiare, incontra bravi insegnanti, eccetera eccetera. Fortune – o nella prospettiva di un credente “grazie”, “doni” – decisivi eppure misconosciuti rispetto a una fallace meritocrazia.
Di questo falso mito della meritocrazia, delle distorsioni che provoca e delle diseguaglianze che finisce per perpetuare hanno scritto su questo giornale tra gli altri Luigino Bruni e Paolo Santori, Vittorio Pelligra e Andrea Lavazza. Oggi, però, riparte da queste stesse considerazioni l’imprenditore Vincenzo Manes in un libro dal titolo già esplicativo: Nessuno basta a se stesso - Perché abbiamo bisogno del bene comune. Manes è vicepresidente e azionista del gigante del rame Kme, 12 stabilimenti nel mondo e oltre 4mila dipendenti, ma soprattutto è il fondatore e inesausto “motore” del Dynamo camp, il primo campo di terapia ricreativa per bambini affetti da patologie gravi o croniche, disturbi del neurosviluppo o condizioni di disabilità, che solo lo scorso anno ha gratuitamente accolto o coinvolto nei camp organizzati nelle città e negli ospedali qualcosa come 9.200 ragazzi, grazie a 77 dipendenti, 400 lavoratori stagionali e al coinvolgimento di 1.650 volontari. Una realtà nata nel 2003 dalla Fondazione Dynamo camp, da cui sono poi gemmate un’oasi naturalistica a Limestre (Pistoia) affiliata al Wwf, un’Academy, il marchio d’abbigliamento Dynamo the good company, la Fondazione Dynamo Arte per l’inclusione e la Fondazione Comunità che gestisce due centri per richiedenti asilo. «Un percorso di trent’anni di sviluppo e messa in pratica di un modello di filantropia che può diventare un metodo applicabile ad ambiti diversi – scrive Manes –. Che può essere potentissimo, può contribuire a risolvere alcuni fra i principali problemi sociali italiani. E per alimentare il quale può essere sufficiente una strategia finanziaria addirittura banale».
Il punto di partenza, come accennato, è quello di riconoscere la propria fortuna. Per Vincenzo Manes - 64enne da Venafro (Isernia), liceale svogliatissimo, poi studente indeciso tra tre facoltà e infine laureato in Economia alla Luiss - è stata quella di incontri personali decisivi – dal banchiere Mario D’Urso al padre di un bambino affetto da tumore – assieme alle prime esperienze in banche d’affari in Italia e a New York, oltre a genitori che ti danno fiducia e, accanto, la compagna di liceo/moglie con cui condividere tutto. Da questo riconoscimento di doni ricevuti nasce l’esigenza profonda di una restituzione, di fare qualcosa per gli altri, di partecipare al bene comune nella consapevolezza, appunto, che «nessuno basta a se stesso» e occorre «camminare anche nella parte in ombra della strada», dove la gente è in difficoltà, non restare semplicemente sul lato assolato in cui ci si è trovati. Fino a rendersi conto che «per cambiare il mondo occorre per prima cosa cambiare il destino delle persone che soffrono. Fare cose concrete, fare cose per loro», scrive ancora Manes. Di lì l’idea di implementare in Italia il modello dei “Serious fun camp” creati dall’attore Paul Newman negli Usa per offrire terapia ricreativa a bambini malati. I tentativi iniziali non sono sempre felici, il progetto è complesso, ma finalmente nel 2007 apre il camp a Limestre, in un’ex fabbrica di materiale bellico “ereditata” dalla Kme. Grazie a un’organizzazione certamente di natura imprenditoriale, ma basata su quattro pilastri a sostenere una peculiare filosofia della cura: gratuità, concretezza, bellezza ed autenticità. Col fine ultimo di contribuire al «diritto alla felicità» dei bambini con gravi patologie e delle loro famiglie. Un diritto, una “felicità immotivata” che chi partecipa alle attività di Dynamo come ospite, famiglia o anche semplicemente da volontario, sperimenta davvero. Una sorta di “centuplo quaggiù” in forma di sorrisi di bambini.
Arrivati a questo punto, però, si potrebbe essere tentati dal pensare: “Certo, facile fare i filantropi essendo i maggiori azionisti di un gruppo dagli utili milionari...”, ma la provocazione/proposta del libro di Manes sta nel proporre a tutti di riconoscere maggior peso alle fortune ricevute piuttosto che alle proprie abilità, a ribellarsi all’ineluttabilità delle sofferenze altrui e, soprattutto, a sviluppare un modello di filantropia “obbligatoria”, di allocazione diversa delle risorse che potrebbe cambiare davvero le cose. Se, infatti, si introducesse semplicemente un “con-tributo”, una «good tax dell’1 per mille sulla sola ricchezza finanziaria delle persone – circa 5mila miliardi di euro in depositi, titoli, obbligazioni – da devolvere a una Fondazione sociale a scelta, si potrebbe mobilitare per il bene comune qualcosa come 5 miliardi ogni anno». L’impatto sulle diseguaglianze, sulla sofferenza di una parte cospicua della popolazione sarebbe enorme. Senza rinunce significative per nessuno: privarsi di 50 euro per chi ne possiede 50mila in banca non è un aggravio tale da cambiare la vita e neppure 1.000 euro per chi ha azioni per 1 milione. Messe tutte in comune, però, quelle risorse possono cambiare il destino di un Paese e di milioni di persone. Il poco che diventa tanto, se messo in comune.