Prospettive. Non solo crescita ma sviluppo «altro»: se la società preme per cambiare
Compriamo auto elettriche, differenziamo i rifiuti, riduciamo gli sprechi, privilegiamo scelte di economia circolare. Le aziende non fanno altro che improntare i loro messaggi sulla sostenibilità, molte introducono lo smart working, mentre si prova a ridurre il consumo di energia, soprattutto quella proveniente da fonti fossili. C’è chi parla, in linea generale, di “decrescita”, chi, invece, preferisce parlare della necessità di un “altro sviluppo”, ponendo l’accento sull’attuazione di buone pratiche piuttosto che sul rallentamento della spinta economica. Di certo la pandemia di Covid-19, la crisi economica e il cambiamento climatico sembrano aver dato ulteriore impulso alle prospettive di un miglioramento dell’equilibrio tra mera produzione economica e benessere delle persone e dell’ambiente. Papa Francesco, che richiama la necessità di agire sempre per il bene comune, nel 2017, nel celebrare il cinquantesimo anniversario della Populorum Progressio, sottolineava che «lo sviluppo integrale è la strada del bene che la famiglia umana è chiamata a percorrere».
Sempre più scienziati indicano che, attraverso politiche indirizzate a un miglioramento dei servizi universali e al progressivo distacco dall’obiettivo della crescita continua, i Paesi più ricchi possono creare prosperità per le loro comunità riuscendo a utilizzare meno risorse e meno energia. Un obiettivo certo non facile né scontato, considerato che gran parte dell’economia globale è strutturata intorno alla crescita, a quell’idea, ha sottolineato di recente anche Nature, secondo cui «aziende, industrie e nazioni devono incrementare la produzione ogni anno, senza tenere conto se ciò sia necessario», una dinamica «alla base del cambiamento climatico e del degrado ecologico». Gli esperti Onu dell’Ipcc e dell’Ipbes, nei loro recenti rapporti, hanno sottolineato che proprio la riduzione di produzioni non necessarie è uno degli obiettivi da perseguire per favorire l’ambiente. Non solo la minore dipendenza dei combustibili fossili, ma anche, solo per fare un paio di esempi, l’abbandono del cosiddetto fast fashion (da molti definita come moda “usa e getta”) e dell’obsolescenza programmata degli elettrodomestici.
C’è poi il miglioramento dei servizi abitativi: in questo, città come Vienna, dove un terzo dei 13mila appartamenti costruiti ogni anno sono finanziati dal governo e il 62% dei cittadini vive in edilizia residenziale sociale di qualità, sono un esempio importante. Come lo sono le spinte per la riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni, a partire da quanto già sperimentato in Islanda, a parità di stipendio, tra il 2015 e il 2019, e le novità su questo fronte in Scozia e Spagna. Aumentano inoltre le città (sono un centinaio nel mondo) che riescono a offrire trasporto pubblico gratuito, o quasi, sia per venire incontro alle esigenze dei gruppi socialmente più svantaggiati sia per disincentivare l’uso dei mezzi privati. In Italia è Genova a guidare da un anno un esperimento in questa direzione tra i centri più grandi. Ma la grande novità è stata quella di Bari, dove il sindaco Antonio Decaro, in controtendenza con gli aumenti dei biglietti nel resto d’Italia, ha annunciato un abbonamento annuo ai bus pubblici di soli 20 euro per incentivare la mobilità sostenibile, grazie all’uso di fondi europei. In Spagna, un simile costoso esperimento, riguardante i biglietti ferroviari gratuiti, verrà finanziato nel 2023 con un’imposta sugli extraprofitti di banche e società energetiche. Nei rapporti tra gli Stati, secondo gli esperti Onu, resta tra gli altri il tema della cancellazione dei debiti dei Paesi poveri, oltre al rimodellamento degli accordi commerciali internazionali che pongono barriere e squilibri, riorientando le capacità produttive del Sud del mondo per raggiungere obiettivi sociali. Tanti temi diversi, insomma, con in comune la spinta alla necessità di un cambiamento.
Secondo Francesco Musco, architetto e docente di Tecnica e pianificazione urbanistica presso l’Università Iuav di Venezia, «occorre spostare l’attenzione dalla convinzione di una dimensione di crescita infinita a una dimensione in cui si possono pensare ad altri parametri sulla valutazione dello sviluppo della società, parametri qualitativi e non quantitativi». «La crescita infinita – sottolinea Musco - non esiste in nessuna legge della fisica ambientale. E quindi il tema della decrescita deve far porre l’attenzione sul modo di vivere nei nostri contesti urbani, laddove abita l’80% della popolazione umana. Il Covid ha fatto riscoprire la prossimità, la distribuzione dei servizi, ma questo implica anche disegnare la città in modo diverso». Secondo Musco, «la dimensione della rigenerazione, del recupero, non aumentano la quantità ma il livello dei servizi e del patrimonio della persone. E questo genera comunque una ricaduta economica. È questa la grande sfida della decrescita oggi: non è vero che indica una riduzione dello sviluppo socio-economico, ma è uno sviluppo che, anziché consumare territorio e risorse, lavora sul recupero e sulla chiusura del ciclo ambientale, sulla città “circolare”, sull’attenzione alla costruzione dal basso».
Per Maurizio Pallante, saggista e fondatore del Movimento per la decrescita felice (tema a cui aveva dedicato un libro già nel 2007), «la decrescita non è la diminuzione indiscriminata del Pil, che gli economisti definiscono recessione, né uno slogan per decolonizzare l'immaginario collettivo, ma è la riduzione selettiva e governata degli sprechi e delle inefficienze nei processi di trasformazione delle risorse naturali in beni». Se si riduce il consumo alla fonte delle risorse materiali ed energetiche a parità di benessere, spiega Pallante, «oltre all'impronta ecologica si riducono anche i costi. I vantaggi economici sono direttamente proporzionali ai vantaggi ecologici. Un edificio ben coibentato mantiene il comfort termico consumando meno energia e, quindi, riduce sia le emissioni di CO2, sia l'importo delle bollette». «La concorrenza e il mercato sono gli strumenti migliori per selezionare le tecnologie e i progetti che consentono di ottenere la massima efficienza e la più alta riduzione degli sprechi – aggiunge Pallante –. Processi analoghi possono essere attivati per ridurre le perdite degli acquedotti, che arrivano fino al 60%, o per ridurre i costi nella gestione dei rifiuti: meno se ne portano allo smaltimento (discarica o inceneritore) e meno si paga, maggiori quantità di materie prime secondarie si recuperano con un'accurata raccolta differenziata e più si guadagna dalla loro vendita. Se la politica economica e industriale non venisse finalizzata alla crescita del Pil, ma alla decrescita selettiva e governata delle inefficienze e degli sprechi, si ridurrebbe l'impatto ambientale del sistema produttivo, si rimetterebbe in moto l'economia e aumenterebbe l'occupazione».
Flavio Felice, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise e visiting professor presso la Pontificia Università Gregoriana e la Pontificia Università Antonianum, non vede da parte sua la decrescita come una scelta «economicamente conveniente»: «La crescita economica è necessaria – osserva –, ma non ancora sufficiente per consentirci di parlare di uno sviluppo integrale». «Oltre l'elemento quantitativo della crescita economica è necessario che si consideri anche l'elemento qualitativo che comprende il rispetto che ciascuno deve all'altro in quanto immagine visibile del Dio invisibile. In questo quadro qualitativo si inserisce il tema dello sviluppo integrale che coinvolge la questione ambientale, la difesa e la promozione del creato, istituzionale, attraverso la difesa e la promozione della qualità inclusiva dei processi democratici e culturale, favorendo la dimensione plurale della conoscenza e la sua funzione di esaltare la dignità di ciascuna persona, dal concepimento alla morte naturale. A tal proposito non mancano indici che misurano altre forme di crescita, oltre allo strumento del Pil, che non andrebbe abbandonato quanto integrato».
Musco torna invece sulla decrescita parlando di una sorta di «sfida culturale» che va in qualche modo «governata» e con un’economia di mercato che «è quasi costretta a seguire questo processo». Spesso, sostiene, «le politiche nazionali non comprendono la complessità di questioni come quella dell’efficienza energetica, trasformandole in mere misure fiscali», mentre «da parte delle città, soprattutto quelle medie, c’è una grossa spinta». «Anche a Venezia – spiega l’urbanista – da quando è diventata città metropolitana, estesa dal confine con il Friuli al delta del Po, qualcosa è cominciato a cambiare, sotto il profilo turistico e del consumo del territorio. Si è cominciato a differenziare le esperienze e valorizzare i percorsi minori. Ma anche a riportare in città gli studenti universitari, sperando che qualcuno poi si fermi a viverci anche dopo la laurea. La stessa idea di Venezia capitale mondiale della sostenibilità promuove un modello di innovazione ed energia pulita».
Energia pulita si traduce con la sostituzione delle fonti fossili con fonti rinnovabili, ma anche con riduzione degli sprechi. Perché, osserva Pallante, «non ha senso produrre energia da fonti rinnovabili e utilizzarla in un sistema economico e produttivo che ne spreca più della metà. Bisogna ridurre la domanda e soddisfare con fonti rinnovabili il fabbisogno residuo. La decrescita non è un'opzione politica, ma una deduzione matematica. Il problema politico da risolvere è come renderla desiderabile socialmente». A tal fine, secondo Pallante, «non basta agire solo a livello tecnologico, ma bisogna che la domanda di merci diminuisca. Ciò può avvenire solo se cambia il sistema dei valori. Occorre rivalutare la spiritualità: le relazioni umane fondate sulla solidarietà, l'importanza della bellezza e della gratuità, il dono reciproco del tempo, il ridimensionamento del denaro da fine della vita a mezzo di scambio delle merci, la valorizzazione della biodiversità, biologica e culturale, perché è essenziale per la vita di tutte le specie viventi, il superamento dell'antropocentrismo. Solo la riscoperta di questi valori può ridimensionare l'invadenza del consumismo nell'immaginario collettivo».
Per Felice, è il mercato, «se ben regolato e sottoposto a costante controllo, lo strumento che meglio di altri favorisce l'inclusione» ed esso «non tollera la pianificazione: se dal basso emerge una simile esigenza, le istituzioni che presiedono e fondano un’economia di mercato assumeranno la forma affinché tale esigenza sia soddisfatta». «Negli ultimi 200 anni – prosegue Felice – la vita delle persone che vivono nelle aree nelle quali è presente l'economia di mercato è migliorata in maniera impensabile solo qualche decennio fa, i nostri nonni temevano di morire per una (oggi) banale infezione, i re e le regine non godevano delle più elementari condizioni igieniche di cui oggi godono persone normalissime». «Questo non significa – continua Felice – che possiamo ritenerci soddisfatti, significa che la strada che abbiamo imboccato non è poi così sbagliata, si tratta di intervenire ogniqualvolta ci accorgiamo di aver perso la rotta. Le istituzioni del mercato sono imperfette come imperfette sono le persone che in esse operano. Solo una visione perfettista e, di conseguenza, totalitaria può immaginare di sostituire il mercato e la democrazia con un apparato centrale pianificatore, mosso dalla presunzione fatale di imporre, magari con lacrime e sangue, a persone chiamate ad essere libere e responsabili, la propria sedicente “infallibile” direzione di marcia, spacciandola per il “senso della storia”».