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Paradossi. Umano, troppo disumano: l’atroce obiettivo che tutto funzioni

Mario Unali lunedì 18 novembre 2024

Centoquarantasette anni dopo la prima edizione del torneo di Wimbledon, un sistema elettronico e una voce umanoide sostituiranno per la prima volta gli occhi e le corde vocali dei giudici di linea, quegli eleganti signori in abito bianco incaricati di osservare e valutare la posizione di atterraggio delle palline sul campo. Di atterraggio si può a buon diritto parlare, perché la velocità del servizio negli incontri maschili ha da tempo raggiunto quella di un jet di linea in arrivo sulla pista. Inevitabile dunque che all’occhio umano risulti sempre più difficile valutare con accuratezza in tempo reale la posizione della pallina. Meglio affidarsi all’intelligenza artificiale.

Il processo di integrazione della tecnologia nello sport è in corso da tempo: basti pensare al calcio, al rugby e allo stesso tennis, che già nel 1996 aveva sancito il carattere divino della tecnologia abolendo il giudice addetto alla rete e sostituendolo con un sensore chiamato appunto Trinity. Si tratta quindi non di una “rivoluzione tecnologica” ma di un lungo, subdolo e paradossale processo: quello di cancellazione dell’uomo dalle cose umane. L’inevitabile imperfezione e fallibilità dell’uomo oppongono un fastidioso ostacolo allo svolgimento della vita e, dove possibile, vanno eliminati e sostituiti con mezzi più affidabili. «La ricerca della perfezione è parte del nostro DNA», ha dichiarato durante una recente intervista Sally Bolton, amministratrice delegata del torneo di Wimbledon, dietro i suoi inseparabili occhiali da vista. Commentando l’addio ai giudici di linea, Bolton ha poi aggiunto: «È il momento giusto per fare questo importante passo verso la massima accuratezza nel nostro arbitraggio». Perfezione e massima accuratezza possono essere per uomini e donne un’aspirazione, una “direzione di viaggio”, di certo non un obiettivo realistico né una costante del loro operato. L’essere umano, dunque, non può più sedere al centro del mondo.

Quella che può sembrare una visione pessimistica dell’ultim’ora affonda invece le radici nel pensiero europeo degli ultimi due secoli, i cui autori più noti e citati esibiscono tratti profondamente antiumanisti. Già nel 1882 Friederich Nietzsche denunciava ne “La Gaia Scienza” la necessità di superare l’uomo mediante la «trasvalutazione di tutti i valori» e di liberarsi così dalla moralità tradizionale; Martin Heidegger, a cavallo tra le due guerre, aveva proposto una cesura netta tra il concetto di uomo e quello di Essere, e gettato un coraggioso guanto di sfida verso gli oltre due millenni di pensiero metafisico occidentale, Nietzsche incluso, basati sul mondo delle idee platonico prima e sul Cogito Ergo Sum cartesiano poi. Si può essere anche senza cogitare, perché il mondo non esiste per l’uomo bensì fuori e a prescindere da esso. Nulla di più antiumanistico, ma anche nulla di più lucido nel precorrere ciò che la realtà sarebbe in effetti divenuta, dentro e fuori il campo da tennis.

Nelle correnti anglosassoni più recenti del pensiero contemporaneo, il realismo speculativo di Graham Harman e Quentin Meillassoux rifiuta apertamente il “correlazionismo” tra essere e pensare implicito nella Res Cogitans di Cartesio e va alla ricerca del senso dell’essere senza transitare per l’uomo. Non a caso il più fortunato testo di Harman, pubblicato in Inghilterra per Penguin nel 2018, è intitolato Object-Oriented Ontology.

Sempre più sensibile al non-umano (si pensi all’attenzione senza precedenti verso l’ambiente e alla crescente cura degli animali), l’uomo è sempre più periferico rispetto a ciò che di umano accade nel mondo, nelle trascurabili vicende tennistiche così come nel pensiero filosofico dominante. Come porsi di fronte a questa tendenza? Sperare in un un improbabile ritorno al passato o accelerare verso l’eliminazione persino dei giudici di sedia in favore di una tecnologia asettica, incorruttibile e affidabile «al di là del bene e del male» come avrebbe voluto Nietzsche? Rallentare e schierarci «in difesa delle cause perse» alla maniera di Žižek, oppure correre alla volta di un mondo del «dopo», quel mondo in cui avremo eliminato non solo i giudici ma anche gli stessi tennisti, in favore di robot che non si infortunano mai e non sprecano mai il nostro tempo di spettatori tirando in rete un rovescio o commettendo un ingenuo doppio fallo?

Martin Heidegger, in un’intervista del 1966 a Der Spiegel pubblicata in italiano da Guanda col titolo «Ormai solo un dio ci può salvare», dichiarò: «Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra». Per ora ha sradicato dal prato di Wimbledon i vecchi giudici di linea e i loro eleganti blazer di lino.