Paradigmi. Imprese alla ricerca dell’impatto sociale «Stare fermi non è un’opzione»
L’impatto sociale ci salverà? Per anni, anzi, decenni si sono sviluppate teorie, stratificati studi, definiti indicatori e standard, elaborate metodologie, celebrate buone pratiche, per dare spinte un po’ da ogni lato al modello di sviluppo nel senso della sostenibilità. Si è parlato di CSR (responsabilità sociale d’impresa), innovazione ed economia sociale, sostenibilità e SDGs (gli obiettivi di Sviluppo sostenibile dell’Onu), di Esg (fattori ambientali, sociali e di governance) e chi più ne ha più ne metta. Ora iniziative normativo-regolamentari e tendenze nel mondo delle imprese e della finanza sembrano indicare che la nuova stella polare sia la misurazione e valutazione dell’impatto sociale. Che potrebbe aiutare anche a separare il grano dal loglio, cioè a stanare più facilmente il greenwashing dilagante e a mettere la parola fine all’ormai stucchevole ritornello che “siamo tutti sostenibili”. Perché, com’è sotto gli occhi di tutti, i risultati fin qui ottenuti non soddisfano: vedere alla voce crisi climatica.
«L’inflazione sulla terminologia della sostenibilità c’è – dice il professor Giorgio Fiorentini, fondatore e Direttore scientifico del Master in Management delle imprese sociali in SDA Bocconi –. È una narrazione un po’ celebrativa, come chiedere se si vuol bene alla mamma. Il punto è come si vuol bene e quali bisogni si soddisfano. Per fare sostenibilità sono indispensabili elementi quantitativi, KPI (key performance indicator, ndr). Se si passa da un livello di narrativa a uno di KPI, ecco che arriviamo all’impatto. Che poi va applicato correttamente». Occorre, insomma, che gli elementi quantitativi entrino in modo stabile nella gestione quotidiana delle imprese, orientando le scelte qui e ora. «Il discorso sulla sostenibilità – spiega Fiorentini – è spesso sbilanciato sul medio-lungo periodo, con obiettivi al 2030, al 2050. Col rischio tra l’altro che se in prossimità di tali scadenze si constata che gli obiettivi sono irraggiungibili, si procrastina ancora. Ma se non si fanno determinate scelte in itinere, nel medio-lungo periodo non succederà niente: non si può pensare di recuperare all’ultimo ciò che non si è fatto per anni. Il presidio dei temi Esg va inquadrato nelle aziende come un controllo di gestione aumentato, in una logica di risk management. Studi confermano che ciò permette di avere minori rischi di default e di crisi, quindi maggiori probabilità che un’impresa duri nel tempo».
Per l’avvocato Roberto Randazzo, responsabile dipartimento Esg e Impact nello studio legale Legance, «c’è grande diffusione di principi Esg e attenzione alla sostenibilità – evidenzia – nel mercato finanziario a livello globale. Ma parliamo di dinamiche di primo livello, quelle per intendersi dei fondi Articolo 8 della SFDR (il regolamento Ue sull’informativa sulla sostenibilità nei servizi finanziari entrato in vigore nel 2021, ndr). Sono in pochi, per vari motivi, ad arrivare al livello superiore, all’“impatto puro”. Che è trasformativo e porta un dividendo sociale che la finanza Esg non considera. Del resto è ormai definito che l’impact investing va tenuto distinto dalla finanza Esg generalista: è la cuspide del sistema». La Global Sustainable Investment Alliance (GSIA) dice che gli investimenti sostenibili nel mondo ammontano a oltre 30mila miliardi di dollari. Il Global Impact Investing Network (GIIN) sottolinea che il mercato mondiale dell’impact investing vale poco più di 1,5mila miliardi di dollari. «La normativa Ue sulla sostenibilità – commenta Randazzo – ha educato il mercato e prodotto cambiamenti, anche al di fuori dell’Ue. Ma non può tutto, anche perché impone solo obblighi di trasparenza informativa».
«L’auspicio – aggiunge Randazzo – è che in una nuova “ondata” di finanza sostenibile si possa costruire maggiore attenzione su prodotti più allineati ai concetti di impatto. Del resto le stesse authority europee, nelle interpretazioni della normativa, utilizzano il termine impatto proprio con riferimento a un cluster più elevato rispetto ai concetti Esg».
Eric Ezechieli è co-founder di Nativa, prima azienda italiana ed europea certificata B Corp e prima Società Benefit (Sb) in Italia. «Più che domandarci – sottolinea – se l’impatto sociale ci salverà, bisogna chiedersi cosa succede quando l’impatto è nullo o addirittura negativo. Cioè se un’attività d’impresa non contribuisce a migliorare la società. Le imprese con impatto positivo salvano prima di tutto sé stesse: quelle non performanti da questo punto di vista, prima o poi hanno difficoltà, costi, perdono opportunità, non attraggono i talenti. Per cui evolvere in questa direzione è naturale, lo dicono la storia e i dati». Secondo una ricerca promossa da Nativa sulle Società benefit (che tra 2019 e 2023 si sono moltiplicate per nove, da 400 a oltre 3.600), un terzo delle finalità di beneficio comune che le Sb s’impegnano per statuto a perseguire è incentrato sull’impatto verso la comunità locale e il territorio: un approccio quasi olivettiano. Ma soprattutto le Sb fanno meglio (nel periodo 2019-2022) delle imprese “non-benefit” di riferimento quanto a crescita di fatturato e produttività. «Negli ultimi anni – aggiunge Ezechieli – c’è stata una sorta di bolla Esg, ma è scoppiata. Specie gli investitori hanno ormai capito che le aziende più performanti sui fattori Esg sono anche meno rischiose. Ciò mobilita intere industrie, comparti, filiere. Perché nessuna azienda finisce ai propri cancelli e, se vuole sviluppare un’attenzione all’impatto, deve attivare in tal senso tutte le componenti della filiera».
Giovanni Lombardo è fra i fondatori di Triadi, spin-off universitario e Società benefit del Politecnico di Milano che valuta l’impatto sociale di attività e soggetti economici, anche fondi d’investimento: nel nome ricorda la triade dell’impatto sociale in senso stretto (intenzionalità, misurabilità, addizionalità) su cui il presidente di Triadi, il professor Mario Calderini, insiste da anni. «Qualunque organizzazione produce effetti sempre e comunque – spiega Lombardo, che è stato anche coinvolto in prima persona nei lavori per la revisione della norma Iso 26000 sulla responsabilità sociale, in pubblicazione a novembre –. Ma bisogna distinguere tra effetti e impatto, anche per evitare il greenwashing. La valutazione d’impatto costringe a tenere in considerazione i cambiamenti che vengono prodotti. Ed è basata sul concetto di materialità, cioè su ciò che è effettivamente rilevante. Trasformare tutto ciò in valori quantitativi, anche attraverso stime, richiede metodologia e competenze specifiche e interdisciplinari, ad esempio per effettuare interviste psicometriche. Del resto la nuova direttiva europea CSRD (recepita col D.Lgs.125/2024, dal 1° gennaio 2025 amplierà il campo di applicazione e renderà più stringenti gli obblighi di rendicontazione di sostenibilità, ndr) obbliga a valutare l’impatto. Dato che i soggetti interessati dalla normativa ribalteranno gli obblighi sulle filiere, volenti o nolenti è un tema che riguarderà tutti». Stare alla finestra, insomma, non è più un’opzione. Neanche per le imprese più piccole, quelle non ancora toccate direttamente dallo tsunami normativo che in Ue ha finora interessato le più grandi. La corsa alla ricerca dell’impatto sociale è iniziata.