Riconciliazione. La restituzione generativa "libera" le scelte economiche
La storica Kelly Schmidt
Ci sono progetti che vale la pena seguire nel loro sviluppo, e ci pare sia questo il caso dello 'Slavery, History, Memory, and Reconciliation Project', del quale scrivemmo su L’Economia Civile lo scorso giugno. Si tratta dell’impegno preso dalla Conferenza dei gesuiti di Canada e Stati Uniti a raccogliere svariati milioni di dollari per finanziare borse di studio e di lavoro, spese sanitarie o di sostegno alla vecchiaia a vantaggio dei discendenti di persone che proprio i gesuiti ridussero in schiavitù. Per approfondire la questione abbiamo discusso con la storica Kelly Schmidt, tra 2016 e 2021 leader dell’equipe di ricerca impegnata nella parte storica del progetto, che coinvolge parecchie università gesuitiche statunitensi: Georgetown, Holy Cross, Saint Louis, Xavier, John Carroll, presumibilmente presto affiancate da Boston College e Fordham University. Partiamo dalla prima considerazione condivisa con Schmidt: la storia serve come motore dell’azione restitutiva. Senza la presa di coscienza degli errori commessi e della sofferenza provocata dal sistema schiavista, infatti, sarebbe difficile alimentare tale motore. Questo vale in particolare nella società statunitense, dove memoria e realtà dello schiavismo sono state nascoste o velate sotto la patina della mitologia. I gesuiti, come le istituzioni ecclesiastiche secolari e altri ordini religiosi, hanno preteso di celare il proprio coinvolgimento nello sfruttamento del mercato degli schiavi mettendo l’accento sul loro essere 'buoni' nei confronti delle persone messe in catene. Per il rispetto di chi ha sofferto e dei loro discendenti, sottolinea Schmidt, bisogna raccontare la verità e non nascondersi dietro un dito, o dietro una parola. Una volta avviato il motore della restituzione, quale strada fargli percorrere? Le diverse istituzioni coinvolte hanno scelto percorsi talvolta indipendenti, cercando il confronto non tanto tra sé, quanto con diverse associazioni dedite al lavoro con i discendenti degli schiavi afroamericani e indigeni. Guardiamo all’esempio della Xavier University (Cincinnati, Ohio). Qui gli 'sforzi riparatori' (come li ha definiti Schmidt) si concentrano sugli studenti che discendono dagli africani schiavizzati. L’università ha istituito la 'Stained Glass Initiative' per promuovere da un lato la consapevolezza storica delle connessioni tra lo schiavismo di ieri e il razzismo di oggi, dall’altro per finanziare percorsi di studio e progetti artistici riservati ai discendenti afroamericani degli schiavi. Mettere l’accento sulla verità storica e sugli eventi culturali è indispensabile, come lo è che i progetti di restituzione prevedano effetti concreti. Le persone ridotte in schiavitù furono private di tutto, inclusi il proprio corpo, la capacità di possedere qualcosa o di accumulare dei beni per sé, ricorda Schmidt. Questo atteggiamento ha delle conseguenze ben visibili ancora oggi, in comunità nere sofferenti per un razzismo sistemico, che limita l’accesso all’educazione, alle risorse economiche, alla salute, alle opportunità in genere.
Gli aiuti concreti, la ricostruzione e la divulgazione della realtà storica aiutano a colmare il gap razziale, dal quale le istituzioni un tempo favorite dalla schiavitù continuano a trarre vantaggio, in conseguenza di dinamiche economico-finanziarie di lungo periodo. C’è una cosa da sottolineare, ha opportunamente aggiunto la storica: è sotto gli occhi di tutti come gli investimenti finanziari di progetti come quello impiantato dai gesuiti nordamericani avvantaggino non solo i beneficiari diretti, ma l’intera società. Sollecitata sulla relazione tra verità storica ed economia etica, Kelly Schmidt propone una riflessione di carattere generativo: se non conosciamo le storie che indirizzano le nostre azioni, rischiamo di non vedere il perdurare delle iniquità insite nel modo in cui investiamo e spendiamo il nostro denaro. Nella società statunitense in particolare, i discendenti degli schiavi, anche dopo aver ottenuto la libertà, sono stati spesso intrappolati in condizioni simili alla schiavitù: mezzadri incatenati a contratti ingiusti, lavoratori forzati a ritmi insostenibili per pagare debiti usurari, o al contrario esclusi dal mercato del prestito. Simili ingiustizie non sono pagine di libri di storia, ma notizie da telegiornale.
Continuano, per esempio nel sistema carcerario che viola sistematicamente il diritto dei detenuti afroamericani (la sproporzionata maggioranza) a un impiego dignitoso e adeguatamente retribuito, o peggio impedisce loro di reinserirsi nel mondo del lavoro dopo aver scontato la pena. Quando sappiamo tracciare le storie dei percorsi culturali che hanno determinato chi è stato definito 'meritevole' o 'immeritevole' di opportunità economiche in base alla razza, possiamo fare scelte più consapevoli per contrastare i modelli razzisti incorporati nei nostri sistemi capitalistici e prendere decisioni economiche che siano più vantaggiose per tutti, chiosa Schmidt. Abbiamo scritto degli Stati Uniti, ma sarebbe un grosso errore pensare che la questione della schiavitù e del razzismo non coinvolga la cultura europea, anche quella cattolica e gesuitica in particolare. Figure fondamentali nella storia dei gesuiti della prima età moderna (XVI-XVII secolo) come Simão Rodrigues, Francesco Saverio, Matteo Ricci e molti altri fecero affidamento su schiavi indigeni e africani in Portogallo, India, Giappone e Cina. Nel XVIII secolo alcuni loro confratelli furono ampiamente coinvolti nel commercio e nella proprietà di schiavi in Angola, in Mozambico, nei Caraibi e in Sud America. L’appello di Schmidt si rivolge agli storici e alle storiche perché si pianifichi un lavoro comune, valicando i confini statunitensi, e avviando progetti destinati a riparare per quanto possibile i danni causati dalla schiavitù - primo fra tutti il razzismo - in tante parti del pianeta. Possiamo, qui in Italia, sentirci esclusi? Niente affatto. Anche i gesuiti italiani hanno investito e beneficiato economicamente della schiavitù e devono considerare come affrontare la loro complicità in questa storia e le sue eredità. Abbiamo fatto riferimento a Matteo Ricci, ma non dobbiamo dimenticare il coinvolgimento italiano nella colonizzazione dell’Atlantico e dell’Oceano Indiano, nella riduzione in schiavitù dei popoli indigeni e africani. Per questo è necessario studiare.