Beni comuni. La qualità dello sviluppo sempre più legata ai "commons"
I luoghi della fiducia istituzionale, 'fede pubblica' la chiamava Antonio Genovesi nelle sue Lezioni di Economia Civile (1765), sono oggi, forse più di allora, quelli della politica, della finanza e delle banche, della salute, dell’alimentazione, della cura degli anziani e dei bambini, tra gli altri. Sono questi i luoghi dove le asimmetrie informative, tra elettore ed eletto, tra consumatore e produttore, tra genitore, figlio e insegnate o caregiver, sono più forti e dove, quindi, si apre lo spazio della fiducia e con esso, lo spazio dell’eventuale tradimento, dell’opportunismo, della frode. «Qualunque cosa gli esseri umani ritengano importante, la fiducia è l’atmosfera in cui ciò prospera e si sviluppa» ci ricorda la filosofa Sissela Bok (Lying, 1978). La fiducia, dunque, è quell’ambiente nel quale tutto ciò a cui più teniamo, trova accoglienza e nutrimento: gli affetti, la sicurezza, le relazioni, la democrazia. Tradire la fiducia che riponiamo negli altri e nelle istituzioni vuol dire inquinare tali ambienti, renderli inospitali, spezzare le relazioni che li costituiscono. La finanza predatoria, l’impresa truffaldina, la politica avida e corrotta, la rappresentanza fasulla, l’amicizia e la colleganza tradita. Vicende molto diverse tra loro ma accomunate da un’unica morale: la fiducia è un bene fragile, destinato, forse inesorabilmente, ad essere razziato. Non ci si può sorprendere allora se analizzando gli ultimi dati disponibili, quelli del 2020, scopriamo che poco più di un quarto degli italiani (26,3%) aveva fiducia nel Governo, simile atteggiamento (25,4%) nei confronti del Parlamento così come nel caso dei partiti (26,6%). È interessante notare che sono proprio le istituzioni di rappresentanza politica, quelle che più di tutte dovrebbero considerare e rispondere agli interessi dei cittadini, ad ottenere i risultati più bassi in termini di fiducia. Come se le aspettative legittimamente più alte venissero sistematicamente tradite. La fiducia è fragile, per sua natura. Esiste una forte asimmetria tra il processo di accumulazione che è lento e lungo e quello della sua distruzione, che invece può anche essere subitaneo e repentino. La fragilità della fiducia, sia quella interpersonale, ma ancor più quella istituzionale deriva dalla sua stessa natura, perché la fiducia – questa è la tesi principale intorno alla quale si articolerà questa serie di articoli – è, infatti, un bene comune, un common.
Un bene che, come gli alberi dell’Isola di Pasqua, tutti abbiamo interesse a che venga salvaguardato e contemporaneamente tutti abbiamo la tentazione di sfruttarlo oltre il ragionevole. Quando parliamo di beni comuni parliamo di una tipologia di beni che differiscono dai tipici beni privati, che vengono scambiati sul mercato. I commons si differenziano anche dai beni pubblici, educazione, salute, difesa, amministrazione della giustizia, etc., che invece, per loro natura vengono in genere prodotti e distribuiti dallo Stato. Mentre i primi sono gestiti individualmente e sono posseduti privatamente – se io compro una pizza, posso impedire a qualcun altro di mangiare la mia stessa pizza, del resto l’ho comprata, è mia – i secondi, invece, i beni pubblici, riguardano la collettività nel suo complesso: se passeggio in un parco o vado dal medico di famiglia per una visita, non posso legittimamente impedire a qualcun altro di fare lo stesso, e il fatto che qualcun altro passeggi nello stesso parco o vada dallo stesso medico, non riduce le mie possibilità di godere di quel particolare bene o di quel servizio. I beni privati e i beni pubblici sono da sempre al centro degli interessi degli economisti che hanno costruito su di essi le dicotomie Statomercato, statalismo-liberismo, a seconda della rilevanza attribuita ad una categoria di beni piuttosto che all’altra. E poi, però, ci sono i beni comuni. Questi beni, l’acqua che beviamo, la qualità dell’aria che respiriamo, le foreste, i pesci del mare, molti diritti di cui godiamo o dovremmo godere, il senso civico di chi paga le tasse e, appunto, il clima di fiducia nel quale lavoriamo e viviamo, sono beni che stanno a metà tra beni privati e beni pubblici.
Come nel caso dei beni privati, infatti, il consumo da parte di una persona ne pregiudica il consumo da parte di un’altra: se pesco troppi pesci, taglio troppi alberi, inquino l’aria, riduco le possibilità di consumo degli stessi beni da parte degli altri. Poi però i commons, assomigliano anche ai beni pubblici, perché nessuno, almeno in teoria, potrebbe per principio, essere escluso dal loro godimento. Da questa natura 'ibrida' dei beni comuni scaturisce anche la loro fragilità. Perché dovrei rinunciare a pescare tutti i pesci che voglio o a tagliare tutti gli alberi di cui ho bisogno se nessuno me lo può impedire? Perché dovrei pagare le tasse se la probabilità di essere individuato e multato è decisamente molto bassa? Perché una banca dovrebbe rinunciare ad utilizzare in maniera speculativa i risparmi dei suoi clienti se il contratto che questi hanno firmato le permette di farlo? In altre parole, se siamo di fronte a beni comuni saremo sempre davanti ad un disallineamento tra costi e benefici individuali e la loro controparte sociale. Ogni singolo avrà un beneficio individuale dallo sfruttamento della risorsa, sia essa un pascolo, una foresta, l’acqua di una sorgente, o la fiducia pubblica, il senso civico, la buona fede dei telespettatori, ma sopporterà solo una frazione del costo connesso a tale sfruttamento. E la spinta generalizzata verso tale sfruttamento porterà al dissipamento della risorsa stessa.
È questo il monito dell’Isola di Pasqua, la logica di quella che Garrett Hardin definì, in un importante articolo apparso su Science nel 1968, come the tragedy of the commons, la 'tragedia dei beni comuni'. La crisi della fiducia istituzionale non è che un esempio di questa logica perversa. Il disprezzo per i beni comuni, l’incapacità di riconoscerne valore e logica, ha prodotto un’atmosfera sociale inquinata. Ma proprio per questo è ancora più urgente la necessità di poterci fidare. Perché come sostiene la filosofa Annette Baier, infatti: «Abitiamo in un clima di fiducia, così come abitiamo un’atmosfera. Ci rendiamo conto di essa, così come notiamo l’aria che respiriamo, solo quando scarseggia o è inquinata». La concretezza e la rilevanza di queste considerazioni per la vita di ciascuno di noi, deriva dal fatto che la più profonda trasformazione che, non solo il sistema economico, ma la nostra società nel suo complesso, sta vivendo in questi decenni, può essere descritta proprio come il passaggio dall’era dei beni privati a quella dei beni comuni. Nella dopo-modernità, la presenza dei commons è e sarà sempre più la regola e non l’eccezione, e la qualità del nostro sviluppo risulterà sempre meno legata alla quantità di beni privati consumati e sempre più alla quantità e alla qualità di 'beni comuni' che riusciremo a preservare e valorizzare. Con questi appuntamenti su Economia Civile, vorremmo 'curare le radici', mitigare le tragedie dei beni comuni a cui assistiamo continuamente, alleviare le patologie della fiducia, che prendono la forma di opportunismo, diffidenza e tradimento. Questa cura non può trovare la sua origine solamente nelle spinte etiche e morali individuali, ma, necessariamente, anche in una dimensione organizzativa, sociale e strutturale.