Pubblicità civile. Il consumo civile
Ogni due settimane le quasi 3000 battute di questa colonna ospitano una riflessione sul mio mestiere di scrittore pubblicitario. Le parole che metto insieme servono a leggere criticamente e con l’occhio allenato dall’esperienza gli esempi più e meno virtuosi di chi fa comunicazione con una sensibilità che non è quella verso il target da colpire, abbattere e conquistare, ma del pubblico da coinvolgere e sensibilizzare sulle tensioni più urgenti del nostro tempo. I brand, nel bene e nel male, sono la cartina di tornasole della nostra società: parafrasando Voltaire, mi piace pensare che il grado di civiltà di una Nazione si possa misurare anche guardando le pubblicità sui suoi palazzi.
Tra qualche giorno saranno 2 anni esatti dal primo pezzo sul numero 36 di questo allegato, oggi sono ospite del numero 73, distribuito peraltro durante una giornata dedicata al Bene che fa l’Economia. Oltre 100.000 battute fino a qui hanno premiato i
modelli da encomiare e stigmatizzato quelli che dal mio personalissimo punto di vista sono ancora lontani dal riscattare un mestiere che per troppi anni ha usato i media come megafoni dell’iperconsumo, dei bisogni indotti e di un immaginario sempre più intossicato. Ogni anniversario impone un bilancio, e adesso scrivo per spostare lo sguardo dall’altra parte della barricata. Non su chi fa mercato con i propri prodotti, non su chi presta il proprio scrivere alla famigerata anima del commercio, ma su chi porta dentro case, dispense, armadi, beauty-case, frigoriferi gli sforzi di brand, manager e imprese. Perché non è più possibile tollerare oltre l’assenza di consapevolezza sulle filiere, sulle logiche di prezzo, sulle emergenze e sulle disuguaglianze che impattano i principali diritti umani, sociali, ambientali ed economici. Sono giorni in cui le forti piogge nel nostro Paese restituiscono immagini drammatiche di comunità alluvionate, travolte dalla forza di fiumi addomesticati che rompono gli argini dell’antropocene. Tra queste immagini, una su tutte ha mosso le mie battute di oggi, quella di un rider con la sua bicicletta e bauletto d’ordinanza che pedala nel fango per consegnare il bene di consumo a chi può permettersi di schiavizzare il portantino della cena. Non ci sono alibi, abbiamo a disposizione tutta la tecnologia del mondo per accedere alle informazioni che possono dirci tutto delle aziende, senza obbedire pavlovianamente agli slogan della pubblicità. Sappiamo quanto guadagna chi lavora in condizioni indecenti per consegnarci sullo zerbino i nostri beni di consumo, possiamo conoscere in tempo reale il viaggio di un capo di fast fashion confezionato per pochi dollari in qualche scantinato. Se una conserva di pomodori costa meno di un quotidiano in edicola è perché qualcuno sta pagando il prezzo che non stai pagando tu e se trovi sempre meno edicole aperte è perché la stessa logica consumistica ha tradito anche il mondo dell’informazione. Il tema della Responsabilità Sociale adesso non può più essere delegato solo a chi vende, ma anche a chi compra.