Inclusione. Housing first, prima la Casa
«Mi occupo di persone con problemi psichici e a New York, negli anni ’80 vedevo finire in strada tanti che frequentavano il mio ospedale: a seguito dell’economia neoliberista imposta dall’amministrazione Reagan c’era chi non aveva più sussidi, e chi perdeva il lavoro e non poteva più pagarsi un appartamento. Le case popolari non erano più finanziate, l’assistenza sociale ridotta: si diffondeva una nuova povertà e i portatori di disagio psichico erano i più colpiti». Allora Sam Tsemberis, psicologo e docente alla Columbia University, ha avuto un’idea tanto semplice quanto efficace: trovare una casa per chi era gettato in strada. Ce ne parla al telefono, con la pacatezza propria di chi compie opere importanti non per soldi o per la gloria, ma come servizio. Riuscì a farsi finanziare un programma nuovo, per dare una casa a chi ne era privo: così nel ’92 è nato "Housing First", la casa innanzitutto. «Quel primo programma ha dimostrato che se a una persona, pur fragile e vulnerabile, viene data una casa, trova una nuova dignità. Abbiamo cominciato a chiedere: dove vorresti vivere, in un appartamento? da solo o con altri? E a cercare la soluzione sperata. A differenza degli altri programmi di assistenza, abbiamo avuto ottimi risultati. Abbiamo dato una casa anche ad alcuni che non avrebbero potuto accedere agli usuali programmi, essendo alcolisti o drogati. E per la maggioranza le persone sono migliorate, hanno acquisito un nuovo equilibrio, alcune sono divenute autonome. Anche gli affetti da schizofrenia hanno tratto giovamento».
L’idea di Tsemberis si è allargata e strutturata, e Pathways to Housing First, divenuto sistema "a rete", si è diffuso negli Usa e nel mondo.