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Ambiente. Green Deal alla prova della nuova Ue

Susan Dabbous venerdì 28 giugno 2024

Sconfitti ma non vinti. Indeboliti, ma probabilmente necessari per creare nuove maggioranze. La riduzione di ben 19 eurodeputati ecologisti al Parlamento europeo dopo le elezioni europee – ora sono 53 in totale – apre a scenari variabili sul futuro politico e climatico europeo, ma rimane una certezza: dal Green Deal (che stabilisce la totale decarbonizzazione dell’Ue entro il 2050) non si torna indietro. Seppure non mancheranno tentativi di sabotaggio e marce indietro.


In linea di massima, comunque, gli ecologisti concordano sul fatto che l’Europa manterrà l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 passando per un’importante tappa intermedia che prevede la riduzione delle emissioni climalteranti del 55% entro il 2030. Per raggiungere questi obiettivi in tempi oggettivamente strettissimi, il gruppo dei verdi al parlamento europeo si è detto pronto ad entrare nella maggioranza di Ursula von der Leyen, ma a condizione che non ci siano anche i gruppi di estrema destra.


Lanciato dalla Commissione Europea a fine 2019 (ai tempi delle strette di mano tra l’ambientalista svedese Greta Thumberg e la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Layen), il Green Deal europeo stabilisce anche i tempi e le modalità per riformare settori chiave come mobilità, industria, agricoltura, protezione della biodiversità ed edilizia. Il costo? Per finanziare il Green Deal la Commissione Europea ha fissato l’obiettivo di usare un terzo dei 1.800 miliardi di euro di investimenti del Next Generation EU e una parte del bilancio settennale dell’Unione Europea (2021-2027). Il Green Deal fu presentato con impressionante rapidità, sotto la pressione dei movimenti dei “Friday for Future” alla fine del 2019, quando la Commissione Europea rassicurò anche che le nuove regole per la protezione del clima sarebbero state accompagnate da politiche sociali inclusive: «Nessuno dovrà essere lasciato indietro», recitava lo slogan. Nel Green Deal infatti, esistono almeno due strumenti importanti di supporto: il Just transition mechanism, meccanismo per una transizione giusta, cha ha un valore di oltre 55 miliardi di euro, e il Social climate fund, fondo sociale per il clima, per un valore di oltre 86 miliardi (ma disponibili dal 2026 al 2032). I due strumenti finanziari sono stati entrambi ideati per aiutare enti, territori e persone disagiate fortemente dipendenti da settori industriali inquinanti, come, ad esempio, le miniere di carbone. Ma sono stati percepiti davvero così?


«A queste elezioni, i Verdi sono stati percepiti come un partito non vicino ai problemi della gente comune», spiega Kahina Rabahi, responsabile delle relazioni istituzionali presso la European Anti-Poverty Network (Eapn). «Il modo in cui hanno portato avanti la lotta al cambiamento climatico sembra quasi aver ampliato il divario tra classi – spiega l’esperta di politiche sociali – e il meccanismo per la transizione giusta (basato su principi compensativi) è stato concepito in modo complesso e collaterale come meccanismo correttivo». In realtà secondo Rabahi, sarebbe stato necessario considerare gli aspetti sociali in modo più integrato per evitare di «far ricadere sui cittadini più vulnerabili il prezzo della transizione climatica». Un esempio: «I costi di adeguamento energetico delle abitazioni – continua l’esperta –, presupponendo che tutti abbiano delle somme in banca per poter anticipare i costi dei lavori di casa e poi ottenere rimborsi. Dimenticando che ci sono persone che non hanno i soldi neanche per curarsi. E poi anche la mobilità sostenibile non è certo alla portata delle classi sociali disagiate». Per Rabahi al Green Deal manca un serio meccanismo di redistribuzione (tassando maggiormente chi inquina) a supporto per le famiglie a basso reddito. Ma nonostante le critiche, per l’esperta di politiche sociali, il Green Deal resta un progetto importantissimo e irreversibile, che andrebbe però rivisto.
Dello stesso parere è anche Emanuele Bompan, direttore di Materia Rinnovabile ed esperto di giornalismo ambientale: «Per garantire una transizione giusta, i partiti Verdi europei dovrebbero evolversi e imboccare per la prima volta una direzione “post-ecologista” – afferma - incorporando una forte componente sociale nella loro agenda politica. La transizione ecologica va spiegata e strutturata in ottica di stabilità economica, sicurezza nazionale, benessere dei cittadini e deve essere strutturata per ridurre il più possibile gli impatti sociali».


«Nella protezione della biodiversità vicino ai fiumi – cita Bompan per esempio – il messaggio da veicolare alla cittadinanza è che si vogliono proteggere le case dalle esondazioni, ridurre i premi assicurativi, sostenere nuove occupazioni legate alla rigenerazione naturale e non solo aiutare i castori o altre specie protette», dice alludendo a battaglie ambientaliste mal comunicate. Secondo Bompan, sebbene una parte del Green Deal sia a rischio di profonde modifiche, ci sono settori, come quello dell'economia circolare, che potrebbero invece vedere un'accelerazione positiva. «L'approvvigionamento delle materie prime in un'ottica di sicurezza economica è cruciale – continua il giornalista –. La strategia delle materie prime prevede il recupero dai rifiuti e lo sviluppo di filiere di biomateriali. Inoltre, il rafforzamento del finanziamento verde, il green banking e i doveri ambientali delle imprese restano prioritari», conclude Bompan.


Un altro settore in positiva espansione è quello delle pompe di calore (alternativa ecologica alle vecchie caldaie) e più in generale dei sistemi di riscaldamento e raffreddamento dell’edilizia abitativa in grado di ridurre drasticamente la produzione di CO2. «Il riscaldamento e raffreddamento sono la causa dell’80% del consumo energetico delle case e quindi una fetta importante dell’inquinamento nelle città – spiega Delia Villagrasa, direttrice della Cool Heating Coalition ed esperta di politiche climatiche. Nonostante le sfide, in questo settore il Green Deal continuerà a fare progressi – asserisce convinta – senza dimenticare che stiamo entrando in una nuova fase di modelli di produzione energetica urbana». Il riferimento è ai cosiddetti Positive energy district, ovvero quartieri urbani autosufficienti dal punto di vista energetico e a emissioni zero. Anche Mélanie Auvray, policy manager dell’Associazione Europea delle Pompe di Calore, condivide un moderato ottimismo sulla prosecuzione dei progetti del settore che conta ormai 200 siti produttivi e 7 miliardi di investimenti previsti».


Ma per Villagrasa, con decennale esperienza nel mondo ambientalista, per una e vera propria rivoluzione ecologica bisogna sperare in una nuova mobilitazione popolare. Dopo lo sfumarsi dell’entusiasmo del movimento degli studenti guidati da Greta Thumberg, a causa della pandemia e della guerra in Ucraina, non è detto che non si presentino nuove forme di protesta. «Con le estreme destre al potere ci possiamo aspettare tentativi di modifiche nella legislazione climatica importanti, anche su diritti che ormai riteniamo scontati come l’aria pulita – continua Ribera – in uno scenario simile, la mobilitazione popolare sarebbe scontata, per il bene e la protezione della salute di tutti».


Una nuova mobilitazione ecologista, a Bruxelles, potrebbe ridare verve ad un movimento politico che appare temporaneamente indebolito ma, sicuramente, ancora non vinto.