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Pensiero economico. Giuseppe Toniolo e l'idea-domanda di un capitalismo meridiano

Luigino Bruni mercoledì 12 gennaio 2022

Tornare agli autori del passato è sempre un’operazione difficile. I problemi che avevano in mente, il contesto sociale nel quale scrivevano, la loro cultura, i dibattiti religiosi e/o scientifici, erano tutti molto diversi dai nostri, a volte troppo diversi perché possano dialogare con noi, tantomeno capirci. Trovare ispirazioni per l’oggi in pagine scritte cento o trecento anni fa è estremamente raro. A cosa serve allora la storia delle idee? Oggi credo che la storia delle idee sia preziosa se diventa la storia delle domande; è meno utile e interessante quando è la storia delle risposte che studiosi, in particolare nel caso di economisti e scienziati sociali, hanno voluto dare alle loro domande e a quelle di altri. Le risposte invecchiano, e in questo nostro tempo accelerato invecchiano molto velocemente; le domande, alcune domande possono invece essere ancora vive e generative. Nel bel volume di Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi e Foligno e tra i maggiori studiosi del pensiero di Giuseppe Toniolo - Economia umana. La lezione e la profezia di Giuseppe Toniolo: una rilettura sistematica ( Vita e Pensiero, Milano, 2021; Introduzione di Stefano Zamagni) - ho dunque cercato di individuare le domande di Toniolo ancora (per me) vive. Il saggio di Sorrentino è strumento oggi indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi al pensiero economico- sociale di Toniolo (al Toniolo teologo e al pensatore cristiano a tuttotondo Sorrentino aveva dedicato un saggio del 1987, G. Toniolo: una chiesa nella storia, Vita e Pensiero).

Chi era Giuseppe Toniolo Giuseppe Toniolo (1845-1918) ha vissuto un tempo di grandi cambiamenti, in Italia e in Europa. Era un adolescente quando si formava l’Italia unitaria e lanciava la sua battaglia anti-clericale. Inizia a insegnare economia sociale nell’università di Padova (nel 1873) all’indomani del non expedit di Pio IX, in un clima anti-modernista e anti-Stato italiano che lo accompagnerà fino alla sua morte. Fu attore e spettatore della crisi sociale ed etica associata all’emergere del socialismo e del marxismo in Europa, insieme alla nascita della Dottrina Sociale della Chiesa con Leone XIII. La sua vita accademica inizia nello stesso anno in cui Walras pubblica a Losanna gli Elements d’économie politique pure, uno dei manifesti della nuova economia neoclassica, che segnerà l’inizio di una vera rivoluzione nel modo di intendere la scienza economica e di fare economia. Toniolo si era invece formato nella scuola Lombardo-Veneta d’economia, la variante italiana della scuola storica tedesca di Roscher e Schmoller. I suoi maestri erano stati Fedele Lampertico, Angelo Messedaglia, Luigi Cossa, economisti e storici che furono gli ultimi esponenti di un mondo teoretico destinato a tramontare con la nuova economia neoclassica inaugurata, in Italia, da Pantaleoni e poi con più grande successo da Pareto. Il giovane Toniolo saliva su una cattedra terminale. Si direbbe, con un’espressione avara ma efficace, come economista 'nasce vecchio' e nel posto sbagliato. Da questo punto di vista, Toniolo somiglia molto ad Achille Loria, che, come lui, fu da giovane uno dei più brillanti rappresentanti dell’economia classica (la sua era quella di D. Ricardo), anch’egli luce lucentissima di una stella che stava termi- nando il suo ciclo di vita. Sono fenomeni questi molto comuni nei tempi di cambiamenti epocali, dove la sorte dei talenti dipende molto da dove studiano e dentro quali scuole iniziano la propria carriera. La storia scientifica e intellettuale di Toniolo fu poi complicata (e allo stesso tempo arricchita) dalla sua fede cattolica. Toniolo, infatti, non era soltanto un economista cattolico come altri della sua generazione e di quelle successive; per lui la fede fu chiamata, vocazione, senso profondo della vita e quindi dell’agire, del suo modo fare scienza, economia e politica. Non era una dimensione accanto alle altre, era la dimensione decisiva della sua esistenza. E, lo sappiamo, fare scienza quando si è ricevuta una vocazione spirituale e religiosa molto forte diventa particolarmente difficile, perché quasi sempre manca la distanza terapeutica dai fatti osservati, quasi sempre si inizia a studiare un fenomeno per dimostrare una verità che la si conosce come vera prima di aver iniziato la ricerca scientifica. Ecco perché gli uomini e le donne con questo tipo di fede hanno fatto una gran fatica ad emergere nelle scienze, perché è troppo comune che le diverse ragioni della fede prevalgano su quelle dello scienziato.

L’uomo e lo scienziato nei testi La lettura dei testi originali di Toniolo (e sono molti, fu scrittore molto prolifico), e poi quella dell’ampia, colta e sistematica ricostruzione che ne ha fatto Sorrentino, ci fanno attraversare tutte le difficoltà che l’uomo Giuseppe e lo scienziato Toniolo incontrarono nel loro tempo difficile. Difficoltà e ambivalenze di cui Sorrentino è ben cosciente, e, a detta di chi scrive, le pagine più belle sono quelle dove l’autore dialoga ad alta voce e in pubblico con il proprio maestro Toniolo (e di magistero si tratta), gli pone delle domande scomode, gli fa delle critiche mostrandogli delle incongruenze nel suo pensiero (ad esempio a p. 210, e nell’intero capitolo conclusivo: 'Prospettive e provocazioni'). È questa onestà intellettuale dell’allievo un valore aggiunto di questo libro, che offre una miniera di spunti di riflessioni, che hanno un valore in sé e non solo in rapporto a Toniolo. Il libro ripercorre passo passo il pensiero economico (e in parte sociologico) di Toniolo, dalla prolusione ('prelezione') nell’università di Padova del 5 dicembre 1873 fino agli ultimi volumi del suo Trattato di Economia Sociale (1915). Il Trattato è, di fatto, lo spartito principale, in certi casi unico, del saggio (sebbene Sorrentino lo corredi con l’ampio apparato di note, dove si trovano delle autentiche perle: sta anche in questa lettura liminare il valore del lavoro). Uscito originariamente in tre volumi, il Trattato racchiude infatti la visione che Toniolo si era fatto sui principali istituti economici del suo tempo. La sua struttura è simile al trattato del suo maestro amato Fedele Lampertico ( L’economia degli Stati e dei popoli: l’Introduzione è datata 18 novembre 1873, pochi giorni prima la prelezione di Toniolo), al Dizionario di Economia Politica del Boccardo, ai Principj di Economia Sociale di Antonio Scaloja, ai molti libri di Luigi Cossa o al Corso di Economia Politica di Achille Loria. Trattati tutti concepiti e scritti sul paradigma del sistema classico, quindi sulla falsariga dei manuali inglesi ( J.S. Mill) e francesi ( J.B. Say), con abbondanti dosi di scuola tedesca. È certamente molto distante dai Principi di economia pura di Pantaleoni o, tantomeno, dal Cours o dal Manuale di Pareto, che erano usciti tutti prima del suo Trattato. Toniolo, diversamente da Pantaleoni, non saltò sul carro della nuova scienza neoclassica solo per mancanza di strumenti analitici (la matematica avanzata); in lui c’era la convinzione che la nuova scienza neoclassica era antropologicamente ed eticamente sbagliata come lo era già la 'madre', l’economia classica di Smith e Ricardo. Toniolo rimase sempre un convinto allievo della scuola storica tedesca, restò un 'economista storico' (come lo definiva già Amleto Spicciani), quella scuola che era critica dell’egoismo (selfinterest) di Adam Smith e ancora di più dell’homo oeconomicus di J.S. Mill di cui non condivideva l’approccio astratto, parziale ed incompleto in nome di una scienza economica unitaria, integrale, sistemica. Non fece l’uomo reale 'a fette' (nel linguaggio di Pareto), ma lo conservò intatto nella sua interezza. Qui, invece, Toniolo somiglia a Pantaleoni che, sebbene avesse scritto un manuale di economia pura, voleva una economia 'impura', convinto che ciò che si perde nelle prime approssimazioni della scienza pura non lo si recupera più, è perso per sempre. Ma quelle battaglie non potevano essere vincenti, in un tempo nel quale il positivismo dominava nella scienza, e con esso la condizione che solo una scienza imperfetta, che rinuncia al tutto per la parte, può essere vera scienza.

Una scienza economica e sociale cattolica A questa convinzione metodologica di fondo, a partire soprattutto dagli anni ’80 in Toniolo si aggiunge la convinzione di dover scrivere, finalmente, una scienza economica e sociale cattolica (non solo cristiana: non era l’epoca dell’ecumenismo), incorporando dentro l’edificio della scienza le nuove istanze ed encicliche dei Papi. Il combinato composto di queste due anime fecero inevitabilmente di Toniolo un anacronismo, un autore che non entrò nel Novecento come protagonista della scienza economica e sociale, come, forse, per il suo talento teorico avrebbe meritato. Eppure ci sono alcune domande di Toniolo che sono state più grandi del tuo tempo, e che ancora continuano ad interpellarci, anche come economisti. Molto belle, ad esempio, sono le sue pagine, riprese e ben valorizzate da Sorrentino, sul lavoro e sull’imprenditore (Capp. X-XIV). Mentre la scienza economica doveva attendere il lavoro di J.A. Schumpeter (nel 1908) per avere una vera e specifica riflessione sulla figura dell’imprenditore, Toniolo decenni prima lo aveva già visto e individuato molto chiaramente come il motore dell’economia industriale (e non solo di questa). Le analisi presenti in uno dei suoi primi lavori accademici - dove la sua vocazione di economista storico è molto netta e brillante - sono particolarmente efficaci quando individua nel mercante fiorentino l’archetipo dell’imprenditore civile: «Firenze fu certamente città commerciale… Ma quivi il commercio si esercitava per approvvigionare le sua arti manifatturiere e per procura spaccio ai prodotti di questo; e quindi il commercio rimane in Firenze (per lungo tempo almeno) una funzione economica, che per quanto grandeggi e si effonda in amplissima sfera, rimane pur sempre subordinata alla produzione industriale, la quale, essendo la fonte prima e massima della potenza economica della città, imprime a questa il proprio carattere» ( Dei remoti fattori della potenza economica di Firenze nel Medio Evo, Hoepli, Milano, 1882, p. 151). Da queste peculiarità derivarono, per Toniolo, anche i grandi sviluppi a Firenze delle corporazioni di arti e mestieri, mentre a Genova si svilupparono soprattutto le Compagnie, sul modello di quelle che diventeranno più tardi e al Nord le varie Compagnie delle Indie e dell’Oriente (p. 152). E così, «tale carattere di città prevalentemente industriosa, non rimase senza particolare efficacia sulla tempra spirituale del popolo fiorentino » (p. 153). Per Toniolo le virtù dell’industria sono superiori a quelle del commercio: «L’industria manifattrice contiene una più elevata virtù educatrice » (p. 159). Inoltre, «l’industria manifatturiera educa all’amore della località e si alimenta di tutti i fattori della civiltà che vengono a a svolgersi dentro la cerchia delle città o i limiti di ristretti territori» (p. 160).

In ombra l’Economia Civile L’antimodernismo di Toniolo, che arriva a comprendere tutto il Settecento e la sua stessa età, gli impedì però di valorizzare la tradizione cattolica dell’Economia Civile del Settecento. Di fatto non si trova traccia di autori come Genovesi o Dragonetti nella sua opera. Genovesi è citato, di sfuggita, per aspetti marginali - anche se in un saggio del 1888, nell’Annuario dell’università di Pisa, si trova citata l’espressione 'economia civile' (p. 298, Opera Omnia, IV), ma non riferita alla scuola del Genovesi. Se, ad esempio, Toniolo avesse conosciuto meglio Genovesi o lo avesse preso sul serio, avrebbe scritto pagine diverse e migliori sul commercio; e quando definì nel suo Trattato il 'principio economico' dell’interesse (in Sorrentino, p. 13) non avrebbe adottato la formula di Galiani (in Della Moneta), dove l’interesse personale era in economia ciò che era la 'legge di gravità' in fisica, ma quella molto più realistica di Genovesi che nelle sue Lezioni di Economia civile definiva il principio economico come 'mutua attrazione', leggendo la gravità di Newton come una faccenda di reciprocità tra i corpi. E vi avrebbe trovato una idea di mercato diversa da quella di Smith e dei neoclassici, basata non sul self-interest ma sull’idea di 'mutua assistenza' tra persone e comunità. L’Ottocento italiano, grazie soprattutto a Ferrara prima e a Pareto poi, operò una profonda cesura con il Settecento italiano. Toniolo poteva costruire un ponte con quel brano importante della nostra storia intellettuale ed economica (e cristiana), ma non lo fece, e di fatto anche lui, come il suo maestro Lampertico, cercò i maestri della vera scienza in Germania o in Francia, non nell’Italia moderna.

La tradizione francescana grande assente. Ancora meno comprensibile è la totale assenza nella sua analisi storica della tradizione francescana, e dello stesso Francesco d’Assisi (se non in pochi e marginali passaggi, tutti evidenziati generosamente da Sorrentino, anche se poi, misteriosamente e credo per una svista editoriale, Francesco non risulta nell’indice dei nomi). È vero che le fonti francescane a fine ottocento erano tutte in latino, ma Toniolo era maestro di latino che usa abbondantemente nelle sue opere. Se avesse letto Olivi, Clareno, lo Scoto economista, Ugo da Digne, si sarebbe accorto, forse, che quel credito feneratizio (a interesse) che egli nella sua opera considera la radice della decadenza capitalistica (cap. XIX), era stato reso in molti casi legittimi proprio da quei dottori francescani, che nelle loro questiones disputatae distinguevano molto bene tra "lucro cessante" e "danno emergente", quando il prestito era fatto ad un mercante (e quindi in genere lecito) e quando ad un povero, quando il tasso applicato era giusto e quando no.Non conosceva Bernardino da Feltre né Marco da Montegallo, beati come lui, e quindi la grande tradizione dei Monti di Pietà. I Monti di pietà sono citati, velocemente, sia nel saggio del 1888 (p. 307), dove però la loro diffusione è erroneamente attribuita a Bernardino da Siena, che morto troppo presto, nel 1444, per poterli diffondere (il primo Monte è del 1458). E li ritroviamo anche nel Trattato (la Circolazione), dove nella parte dedicata alla storia del credito leggiamo: «Altrove [le banche] ebbero origine dai Monti di Pietà i quali essendosi costituiti specialmente dietro impulsi caritatevoli e religioso allo scopo di fare gratuitamente gli imprestiti ai poveri e così sottrarli alle usure, più tardi diventarono banchi di commercio» (p. 234). Una ricostruzione storica imprecisa, che non menziona l’origine francescana dei Monti. Se avesse conosciuto la vera storia dei Monti (negli anni Settanta dell’Ottocento ci furono in Italia diversi studi storici sull’origine dei Monti) avrebbe saputo delle battaglie dei frati francescani per rendere legittimo il pagamento di un interesse sui prestiti, con lo scopo cristianissimo di evitare il fallimento di quei banchi dei poveri. E avrebbe anche visto che, diversamente da quanto egli affermava (p. 247), la Chiesa non ha sempre preteso il prestito gratuito, neanche in pieno medioevo: è molto antica l’idea cristiana, anche teologica, che il gratuito non coincide sempre il gratis, e la Charitas non equivale ad un prezzo nullo ma a uno infinito.

La lettura della modernità. È, infatti, la lettura della modernità il grande problema al centro dell’opera di Toniolo, un tema così grande ed onnicomprensivo da andare oltre il libro di Sorrentino di cui in questa sede ci occupiamo. Per un autore contemporaneo è qui difficile, forse impossibile, seguire Toniolo. Per il maestro trevigiano, la Riforma protestante era stata anticipata dall’Umanesimo che lui legge come fenomeno pagano, come decadenza della Scolastica cristiana. Il capitalismo protestante fu il momento culmime di degenerazione dell’economia di mercato e dello spirito moderno, che Toniolo legge come abbandono dello spirito cristiano medioevale e italiano (toscano). Riguardo all’Umanesimo e al Rinascimento così scrive in uno dei suoi saggi storici a essi dedicati: «Apparso dapprima come un risveglio letterario e filologico che volgevasi a immediato e più amoroso studio della cultura classica di Grecia e Roma… Perciò si risolveva in una sostituzione della civiltà pagana alla civiltà cristiana… Studi recenti hanno distinto anzi nettamente il buono dal malo rinascimento» La genesi storica dell’odierna crisi sociale ed economica, 1893, pp. 110-112). Il "buono" è quello promosso dai papi, da Dante, Petrarca, Leonardo Bruni, Cusano. Il "malo" quello di Boccaccio, Bracciolini, Erasmo, che culminerà con Ficino e Machiavelli (p. 112). Di Dante apprezza la lode dell’economia «semplice e intemerata» del suo avo Cacciaguida e la critica a «quella trafficante e già corrompentesi dei giorni suoi» Opera Omnia, IV, p. 304), ormai sotto l’imperio del "maledetto fiore".E così si compie «veramente la transizione dell’evo medio cristiano al moderno, dall’ordine sociale maturato dalla Chiesa, all’ordine sociale umano dalla pura ragione» (p. 113). L’Umanesimo fu dunque «feticismo di una civiltà pagana i cui concetti ed istituti erano la negazione delle virtù civili cristiane, ma soprattutto perché, sotto il velame del classicismo di Grecia e di Roma, si affermava l’impero dei rapporti sociali dell’uomo e della sua ragione indipendenti dal sovrannaturale. Se principio e fine dell’umana convivenza è Dio, ivi impera il dovere, e quindi giustizia e carità, col sacrifizio che guarentisce e feconda l’ordine sociale. Se il fine è l’uomo, ivi prevale inevitabilmente l’utile, pronto a degenerare in egoismo» (pp. 122-123). Una visione dell’Umanesimo molto diversa da quella di Maritain che in Umanesimo integrale vedeva invece l’Umanesimo come il tempo della co-gestione del mondo condivisa tra Dio e l’uomo. Il capitalismo, con tutte le sue derive etiche e spirituali, non è quindi per Toniolo un frutto dell’etica cattolica medioevale, ma del decaduto spirito prima umanista, poi protestante e infine moderno, inclusa la sua filosofia e Kant (p. 58). Il capitalismo e l’umanesimo sono perciò entrambi degenerazioni dell’autentico spirito cristiano, il primo nel mondo protestante il secondo in quello cattolico. Questa idea aurea del Medioevo fu un’idea costante di tutta la sua vita, fino al Trattato: «Al di sopra la Chiesa, finalmente distinta e indipendente dallo Stato, maestra e custode della coscienza, vindice di giustizia sociale, tutrice e puntello degli ultimi, rappresentante della unità e universalità del genere umano. Veramente novus ordo, reale e vivente nella società, avvolto esso medesimo da un ordine ideale, risultante da … mistiche contemplazioni, che non comprimevano, ma sublimavano la vita operativa dei popoli» (Trattato, I, p. 109). Uno sguardo retrospettivo che dunque non vede, o quanto meno sottovaluta grandemente, la condizione della maggior parte della popolazione composta di servi della gleba e di plebei che di quei avanzamenti spirituali che avvenivano nei conventi e nelle università non sapevano nulla, e che ignoravano le contemplazioni mistiche di qualche élite spirituale. Il lavoro di cui parla Toniolo era quello di una esigua percentuale di lavoratori urbani nelle botteghe artigiane o, forse, dei filatoi toscani: per tutto il resto della gente il lavoro era dolore e servitù a vantaggio di pochi ricchi.Toniolo qui è davvero figlio del suo tempo, della sua chiesa cattolica rinserrata e impaurita dall’avanzare della modernità laica e del socialismo. E così non vide l’alba dentro l’imbrunire, non riuscì a intuire che in ciò che si mostrava come anti-cristiano c’era molto di cristiano - diritti umani, liberazione della donna, riconoscimento delle minoranze … - che fiorirà poi nelle democrazie del XX secolo, nei sistemi di welfare, nella scuola universale, nei diritti dei lavoratori. Oggi nessuno negherebbe che l’Umanesimo, il Rinascimento e persino l’illuminismo non siano figli del Medioevo, eredi anche di Dante, Tommaso, Francesco. Figli con le loro ambivalenze, limiti, errori - come tutti i figli, e come tutti i padri.

Le domande generative. Queste cose non le leggiamo in Toniolo, forse non le potevamo leggere. Ma vi leggiamo altre cose importanti, alcune domande generative. Tra queste una attraversa la sua intera opera: la condizione che dell’umanesimo medioevale e della sua economia si sia perso qualcosa d’importante durante il passaggio moderno, qualcosa di decisivo soprattutto per i Paesi di cultura latina e comunitaria, e tra questi l’Italia. L’idea-domanda di un capitalismo meridiano, non abbastanza riconosciuto e in parte negato dal capitalismo nordico vincente, è una idea che mi piace molto in Toniolo (e in Sorrentino). Come resta viva la domanda di dove si trovi la nota specifica del cristianesimo nella sfera economica, non solo nell’economia pratica ma anche nella teoria. Da queste e altre domande si può ripartire per un nuovo dialogo con questo grande maestro, maestro di tutti, anche mio. Grazie a Monsignor Sorrentino per custodire tenacemente la sua memoria, e le sue domande.