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Digitale. Film, musica, libri: se la cultura che ti piace la decide un algoritmo

Pietro Saccò mercoledì 24 aprile 2024

C’è sempre in mezzo un algoritmo. Quando scegliamo che cosa guardare su Netflix, quando andiamo su Amazon per comprare un libro, quando apriamo Spotify per ascoltare della musica. C’è di mezzo un algoritmo anche quando cerchiamo online la meta delle nostre vacanze e magari ci viene voglia di andare in quel posto così bello che abbiamo visto nelle immagini pubblicate sul profilo Instagram di un nostro amico. Anche quelle foto ce le ha proposte un algoritmo, una sequenza di calcoli e di istruzioni del tipo “if this, then that” (se questo, allora quello) che sempre più spesso si frappone tra noi e il nostro rapporto con il mondo che ci circonda.

Kyle Chayka, giornalista che per il New Yorker si occupa del rapporto tra digitale e cultura, ha chiamato Filterworld, cioè “il mondo dei filtri”, questa rete di algoritmi che ha un’influenza sempre maggiore sulle nostre vite. Filterworld è il titolo del suo libro uscito per Roi Edizioni a marzo, a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione dell’edizione americana.

Chayka si interroga in particolare su due questioni. La prima è l’effetto che il lavoro di filtro degli algoritmi sta avendo sul nostro modo di relazionarci con l’arte, in tutte le sue forme: arte visiva, musica, film, letteratura, danza. La seconda è la modalità in cui gli algoritmi stanno modificando gli stessi processi creativi e, in definitiva, l’industria culturale.

Le risposte che ha trovato, con un’indagine che parte da grandi maestri della sociologia della cultura come Walter Benjamin e arriva alle interviste a tiktoker di successo, non sono buone. Il business delle piattaforme digitali consiste nel catturare la nostra attenzione per il maggior tempo possibile, così da rivenderla agli investitori pubblicitari al prezzo migliore. Tutto ciò che non si adatta alle loro strutture – e quindi a questo tipo di attività essenzialmente pubblicitaria – viene marginalizzato, escluso, lasciato scomparire. E questo è ancora più preoccupante perché è la stessa esistenza di un gusto personale dell’essere umano, un modo di apprezzare le cose che è soggettivo e diverso per ognuno, a ostacolare il successo del business delle piattaforme basate su algoritmi, che per migliorare la loro efficienza hanno invece bisogno di consumatori facilmente categorizzabili ai quali consigliare contenuti standardizzati.


È difficile formarsi un gusto personale, sapere che cosa apprezziamo davvero, quando è forte la pressione esterna per dirci che cosa ci piace

Nella storia dell’umanità non è mai esistita una possibilità tecnica di rilevare e misurare istantaneamente il gradimento simile a quella offerta dai social network e dalle altre piattaforme basate su algoritmi. Una qualsiasi foto postata su Instagram entra immediatamente in un sistema in cui è il numero dei “mi piace” a determinarne il successo. Lo stesso accade alle canzoni (con gli artisti dell’ultimo Festival di Sanremo introdotti sul palco con il puntuale conto del numero di visualizzazioni dei loro video musicali su Youtube e degli ascolti su Spotify) o anche ai libri, giudicati dalla posizione che trovano nelle classifiche delle vendite di Amazon. Influencer sono state invitate alle Gallerie degli Uffizi, che hanno esultato in un comunicato ufficiale per avere «superato la soglia dei 2 milioni e mezzo di cuoricini» su TikTok.

La pressione che questo tipo di informazioni ha sul pubblico non è neutra: con un meccanismo banale noto da decenni alla psicologia sociale, l’ostentazione del successo o dell’insuccesso di qualcosa, enormemente amplificata dalle piattaforme, spinge il pubblico ad adeguarsi. Questo accade ancora più facilmente quando qualcosa, compresi i prodotti culturali, ci viene presentato esplicitamente dalle piattaforme come “per te”, perché è l’algoritmo che ritiene di avere capito che cosa ci piace e intende proporci sempre qualcosa di simile.

È difficile formarsi un gusto personale, sapere che cosa apprezziamo davvero, quando è forte la pressione esterna per dirci che cosa ci piace. Può anche succedere, ricorda Chayka riprendendo il concetto di “personalizzazione corrotta” dallo studioso Christian Sandvig, che quei consigli “personalizzati” non siano nemmeno calibrati sui nostri gusti rilevati dalla piattaforma, ma siano piuttosto utili a indirizzare la nostra attenzione verso interessi diversi, che coincidono con gli obiettivi di business di chi controlla questo processo. Ad esempio perché chi ha pubblicato un video su Tiktok ha pagato per fare arrivare il suo contenuto al maggior numero di persone possibili.

Quando gli utenti si mettono nella modalità che i servizi di streaming definiscono di “lean-back”, cioè seguono i contenuti proposti in sequenza da una piattaforma senza essere troppo schizzinosi rispetto a quanto proposto, sono «nutriti di cultura come anatre da foie gras, con più attenzione al volume che alla qualità, perché il volume, cioè il tempo speso, è ciò che fa guadagnare la piattaforma attraverso pubblicità mirata».

È con queste modalità che il mondo dei filtri porta verso una distruzione del gusto personale, spingendo verso un appiattimento che semplifica l’attività delle piattaforme: più i gusti del pubblico sono omogenei, più si può risparmiare sulla produzione di contenuti, facendo per esempio del pop coreano un successo musicale mondiale. Queste dinamiche influenzano anche la produzione artistica, che storicamente non era vincolata dalla necessità di cercare il gradimento. Anzi, nota Chayka, negli ultimi due secoli l’apprezzamento, soprattutto quello immediato, non è stato una metrica comune della cultura.

Anche la creatività artistica è però chiamata a piegarsi alla logica degli algoritmi, perché sono loro a filtrare l’esperienza culturale delle persone, che spendono online molto del loro “tempo libero”. Abbiamo così i poeti da social, gli scrittori da tiktok, i programmi televisivi utili soprattutto a generare piccole clip da rilanciare sui social. Il successo effimero degli Nft, i “token non fungibili” di arte digitale adattissima a essere condivisa, comprata e venduta online.

« A Filterworld – scrive Chayka – ciò che è piacevole ha successo e ciò che non lo è è destinato a fallire, in particolare in qualsiasi ambito culturale in cui il pubblico è un requisito per la sopravvivenza. E poiché il panorama culturale americano è quasi interamente asservito al capitalismo, ciò significa più o meno tutto».

In Filterworld c’è anche una via d’uscita da tutto questo. È quella del ritorno al lavoro di cura umana, riaffidando a esseri umani quel lavoro di “suggerimento” dei consumi artistici che per inconsapevolezza o pigrizia abbiamo sempre più lasciato agli algoritmi. Serve frequentare i “curatori”, scrive Chayka, “suggeritori professionisti” che conoscono l’arte e «si assicurano che la visibilità venga data a ciò che la merita. Svolgono il lavoro di contestualizzazione e ci presentano le novità, stimolandoci a evitare l’omogeneità». Sono i dj radiofonici, i librai, i gestori di cinema indipendenti, naturalmente i curatori delle mostre. «Credo che il mio compito non sia di dire alle persone cosa è buono e cosa è cattivo, ma piuttosto quello di stimolare il senso critico» spiega all’autore Paola Antonelli, architetto e designer italiana oggi curatrice capo del Moma di New York. Occorre, è il messaggio centrale, tornare a occuparsi attivamente dei propri consumi culturali, «tornare ad assumersi la responsabilità di ciò che consumiamo». Riprendere il controllo, per non lasciare che sia un algoritmo a decidere per noi.