Paradigmi. Fallire e ripartire: come ci si rimette in gioco dopo la fine dell'azienda
.
Fallire, a 45 anni. E trovarsi senza lavoro, indebitati fino al collo, con la lista dei fornitori da pagare e delle banche da rifondere per i prestiti. È quel che è toccato nel 2010 a Fiorella Pallas, a lungo manager in una grande multinazionale, poi imprenditrice nel campo della gioielleria olistica, con un concept store a Roma e due stabilimenti ad Arezzo, oltre alla collaborazione con decine di punti vendita da Nord a Sud. Un salto fortunato all’inizio, finché tutto è cominciato ad andare storto: «La crisi del settore, l’aumento vertiginoso dei costi delle materie prime – racconta –. Sono entrata in un tunnel». Da cui Fiorella alla fine è uscita («i miei debiti li ho saldati l’anno scorso»), ma con un’esperienza che l’ha segnata per sempre: «Per la vergogna che ho provato, per la solitudine che ho vissuto, per le ripercussioni che questo trauma ha avuto sulla mia vita». E perché nel Paese che sull’imprenditoria e la tradizione delle grandi e piccole aziende familiari ha costruito la sua economia il fallimento è ancora un tabù: chi lo incontra ne è l’assoluto “colpevole” e piomba nell’abbandono sociale, se non addirittura nello stigma, sperimentando l’assenza totale di misure istituzionali e istituzionalizzate di accompagnamento.
Peccato che di fallimenti e partite Iva chiuse ogni anno, in Italia, se ne contino la cifra impressionante di 100mila (quasi 300mila quelli stimati nel 2021, cioè immediatamente dopo la pandemia): ciò che – tra mancate tasse versate e licenziamenti –, considerando la cifra media di 50mila euro a Pmi, ha un costo sociale ed economico di 5 miliardi di euro per lo Stato. «Di cui nessuno si occupa» rimarca Fiorella che nel 2019, a Treviso, nel cuore del Veneto produttivo che il maggior numero di fallimenti imprenditoriali si intesta ogni anno, ha deciso di provare a cambiare le cose inventandosi la sua “100mila ripartenze”. La onlus è un’esperienza unica nel nostro Paese, modellata su quella francese di “60.000 rebonds”, che Oltralpe è operativa dal 2012 con numeri da capogiro: oltre mille gli imprenditori presi in carico ogni anno (un terzo dei quali riprende la propria attività), quasi 2mila operatori impegnati, partnership internazionali e pieno sostegno del governo nell’azione di recupero. A “100mila ripartenze” si è cominciato in punta di piedi, senza molta attenzione da parte del mondo economico e delle istituzioni, con un manipolo di volontari e con due obiettivi molto concreti: aiutare gli imprenditori falliti a recuperare uno sguardo su sé stessi e poi a mettere in piedi un nuovo progetto imprenditoriale. «I percorsi offerti sono gratuiti, durano dai 12 ai 18 mesi – spiega Fiorella Pallas –. Il primo step è creare con loro uno spazio di fiducia, in cui si sentano liberi di esprimere le emozioni bloccate e condividere la propria situazione, personale e professionale».
Una sessione di confronto con i giovani di H-Farm - .
Rimettere insieme i pezzi: il metodo e il ruolo dei giovani
Non è facile chiedere aiuto dopo aver vissuto la vergogna del fallimento, che con sé nella stragrande maggioranza dei casi porta l’accusa di aver commesso frode, il sospetto e le riserve della comunità in cui si vive, la disgregazione dei nuclei familiari. Inizialmente all’imprenditore viene affiancata la figura di un wellbeing coach, che approccia la sua situazione emotiva in un percorso codificato che rispecchia le indicazioni suggerite dal progetto europeo Sefac (Social engagement gramework for adressing the chronic-disease challenge): aver fallito, in buona sostanza, non significa essere dei falliti e l’identificazione col fallimento è la prima ferita che va curata, recuperando fiducia e relazioni. «Dopo questo passaggio, e l’incontro con un business coach incaricato di focalizzarsi sul recupero dell’autostima e dell’energia necessarie a ripartire, segue una fase di orientamento specifica, coadiuvata da un mentore, per analizzare nuove opportunità di business e acquisire strumenti di lavoro aggiornati» continua Fiorella Pallas: per rendere più solida e sicura la nuova attività a “100mila ripartenze” ogni imprenditore viene gradualmente messo in contatto con specialisti di diversi settori per consulenze mirate, anche dal punto di vista legale. Ed esce dalla sua solitudine, prima nei “Comitati di sviluppo mensili”, gruppi in cui la sua situazione viene condivisa fra tutti i partecipanti, i coach e i mentori per chiedere e scambiare consigli ed aiuti, condividere dubbi ed esperienze, stabilire una rete di relazioni più solida per le future attività. Poi aprendo le porte a collaborazioni sul territorio, la più promettente delle quali è quella avviata con gli studenti di H-Farm, il campus internazionale che in provincia di Treviso forma i manager del futuro: «Abbiamo creato dei team di ragazzi e imprenditori in ripartenza sulla base delle esigenze dell’attività da lanciare e delle specializzazioni di ciascuno. Questo ha permesso ai giovani di cimentarsi come consulenti su case history reali – spiega ancora Fiorella – dando loro l’occasione di trasformare in pratica la teoria imparata sui banchi, sviluppando strategie e progetti per una committenza reale e sperimentando per la prima volta una vera esperienza professionale, comprendendo più a fondo le logiche imprenditoriali, le dinamiche della concorrenza, la fattibilità e i costi della messa in opera delle proposte».
Parallelamente, il lavorare insieme agli studenti ha aiutato gli imprenditori (nella maggior parte dei casi over 40 o 50) ad acquisire una nuova visione del business, attualizzata con le recenti tecnologie digitali e informatiche, con i nuovi linguaggi di comunicazione: un processo inedito di “educazione circolare” basato sullo scambio intergenerazionale. Da gruppi di lavoro così eterogenei per esperienze ed età sono nate collaborazioni, amicizie, in alcuni casi start up. E il fallimento è diventato il bagaglio “utile” da portare con sé per evitare errori e sottovalutazioni, in alcuni casi la molla per fare meglio e con più entusiasmo. Il risultato è quantificabile: la quasi totalità degli imprenditori seguiti si riprende sul piano personale e professionale, mentre il tasso di ripartenza effettivo (cioè di ripresa di una propria attività) si aggira attorno al 40% su una media di 30 percorsi seguiti ogni anno. E la onlus, forte di una collaborazione sia con la “cugina” francese sia con quella belga, prepara in queste ore la proposta di una Giornata europea sulla ripartenza e lo statuto di una federazione internazionale che in futuro vuole incidere a livello di politiche comunitarie sul tema.
Fiorella Pallas, la fondatrice di “100mila ripartenze” - .
Il “made in Italy” ci guadagna
Il modello che anima la nostra attività d’altronde è quello di un’economia più umana, attenta alle persone e all’impatto sociale che genera, non indifferente – riflette Fiorella –, non orientata solo sul business e sul successo. La sconfitta e il fallimento costituiscono una componente della vita assolutamente naturale sia che si tratti di una partita di calcio con gli amici, di una bocciatura a scuola, della rottura di una relazione o del fallimento della propria azienda. Chiunque di noi si sia messo in gioco è stato qualche volta sconfitto e questa sconfitta è il motore di un progresso». L’immagine eloquente è quella del vaso riparato con la tecnica giapponese del kintsugi: crepe e rotture vengono riparate con decorazioni dorate che lo impreziosiscono e lo trasformano in un oggetto unico, aumentandone il valore a dismisura. Ma c’è molto di più: sostenere gli imprenditori nella loro ripartenza significa anche sostenere fattivamente il “made in Italy”, declinato nelle molteplici tradizioni produttive territoriali che spesso proprio a causa di fallimenti abbiamo visto scomparire dal Belpaese nel corso degli anni. Ecco spiegata accanto alla onlus la presenza di un’azienda nota come la Molinari: «Si può dire che l’attività imprenditoriale della mia famiglia sia nata da un fallimento – racconta Mario Molinari, che con il fratello e la sorella porta avanti la storia della sambuca in Italia e nel mondo – e che a furia di rischi di fallimenti sia cresciuta e si sia via via strutturata fino ad oggi. Nonno Angelo era un profumiere, la sua prima avventura imprenditoriale fu spazzata via dalla crisi del ’29. Nel 1945 concentrò i suoi studi sulle spezie e arrivò alla formulazione inedita di un liquore unico. Nacque la sambuca, che prima fu distribuita nei ristoranti veneti, poi su scala nazionale».
Al primo stabilimento di Civitavecchia si affianca quello di Frosinone, cantanti e attori fanno a gara per contendersi le pubblicità del marchio, nei salotti di Roma si beve sambuca con il chicco di caffè nel bicchiere. Poi le sfide: «La necessità di metterci sul mercato internazionale, la rivoluzione nel campo della comunicazione negli anni Ottanta, il cambio degli stili di vita, più recentemente il trauma del Covid. L’azienda è cambiata - prosegue l’imprenditore -, ha convissuto con le fasi più difficili mantenendo saldo soprattutto il suo radicamento sul territorio, a cui non abbiamo mai rinunciato. E considerando sempre le crisi come snodi da gestire, occasioni per mettersi alla prova e punti di ripartenza, complice l’esperienza maturata nel corso dei nostri studi negli Stati Uniti, dove la cultura del fallimento ha uno spazio completamente diverso rispetto all’Italia».
Sbagliare, trasformarsi, azzerarsi se necessario, ricominciare: «Capire, nel nostro caso, che la forza dell’imprenditoria è anche circondarsi di esperienze e talenti diversi, ognuno con la propria specificità, che poi è quello che tentiamo di fare coi miei fratelli dividendoci i compiti e condividendo progetti e risultati». Le testimonianze di Mario Molinari e di altri imprenditori animano incontri e tavole rotonde, le “100mila ripartenze” entrano nelle aziende, cercano di superare il muro della vergogna e accogliere più vittime di quelle che ne scoprono l’esistenza online (www.100milaripartenze.it). Superare il fallimento si può, passate parola.