Emarginazione. C’era una volta in America: «Così muore il sogno a stelle e strisce»
Gli Stati Uniti sono la nazione più ricca al mondo. Gli Stati Uniti possono permettersi di eliminare la povertà dal suo territorio e sanno come farlo. Ma quasi il 12% della popolazione americana vive nel bisogno. Per 38 milioni di persone, cibo a sufficienza, acqua pulita, un’abitazione adeguata o vestiti puliti sono un lusso spesso inaccessibile.
Javier Marquez è uno di loro. Pulisce uffici in un grattacielo di San Diego nove ore al giorno, sei giorni alla settimana, e dorme in un furgone parcheggiato nella periferia della metropoli californiana. «Chi proviene da una famiglia privilegiata spesso non capisce che cosa vuol dire crescere in povertà — dice il 30enne —. È una battaglia che dura tutta la vita contro cattive condizioni di salute, poca istruzione, cibo scarso. È svegliarsi con una maglietta sporca e andare a letto affamati. Da quando avevo 14 anni lavoro sodo, ma per il 90% del tempo non sono stato in grado di soddisfare i miei bisogni».
Il paradosso tutto americano della lotta per la sopravvivenza in mezzo alla ricchezza non è radicato in misteriose alchimie economiche o incomprensibili cause sociali. Le sue ragioni sono state studiate e puntano tutte a una tesi tanto scomoda quanto evidente. Una larga fetta di americani vive nel bisogno perché al resto della popolazione conviene che sia così. L’ultimo a portarla a galla è Matthew Desmond, sociologo alla Princeton University e vincitore del Premio Pulitzer, che l’ha illustrata nel libro Poverty, by America, dove sottolinea non solo la responsabilità delle multinazionali e di Wall Street, ma anche di tutti gli americani che hanno raggiunto la sicurezza economica e, per mantenerla e goderne i benefici, approfittano dei connazionali che stentano a restare a galla.
«Alcune vite sono ridotte in modo che altre possano crescere», spiega Desmond a L’economia civile, indicando una nuova prospettiva: concentrarsi meno sui poveri e più sui comportamenti che radicano la povertà e sull’imperativo morale di non tollerare le privazioni. Desmond non ha del tutto scelto di occuparsi di disagio. Si è aggrappato al tema per dare un senso alla sua storia personale. Cresciuto in una famiglia dove i soldi erano pochi, ha visto i genitori perdere la casa e finire in una roulotte quando era all’università. «È stato un periodo di grande tumulto. All’università ho visto così tanti soldi. Ho iniziato a passare del tempo con i senzatetto, facendo amicizia. Mi ha aiutato a dare un senso alla mia confusione».
le persone che negli Stati Uniti vivono in povertà, secondo il censimento 2021
7,25 dollari
l’ora il salario minimo federale, considerato largamente insufficiente
27.500 dollari
la soglia sotto la quale una famiglia media di quattro persone è considerata povera negli Usa
20,8%
la quota di poveri tra gli afroamericani, doppia rispetto ai bianchi
Sulle strade di Tempe, in Arizona, Desmond ha visto una povertà «e crudele», fatta di anziani senza riscaldamento che passano l’inverno sotto le coperte e bambini che vivono sui marciapiedi. E ha scoperto che molti luoghi comuni sono falsi. Il primo è che la povertà sia la conseguenza di dipendenze da droga o alcool: «Ho incontrato molti senzatetto che sono caduti nella dipendenza da oppiacei per anestetizzare il trauma di non avere una casa. Molti usano le metanfetamine perché vivere per strada fa paura. Ma la maggior parte delle persone sotto la soglia di povertà non fanno uso di droghe e non bevono. I ricchi bevono molto di più dei poveri».
Un altro pregiudizio che sfata è che i poveri stiano molto meglio oggi rispetto a 30 anni fa, perché spesso hanno un cellulare o un televisore. «Non puoi mangiare un telefono, non puoi scambiare un televisore per un salario dignitoso. Il costo dei prodotti di massa è diminuito, mentre elettricità e cibo sono aumentati del 115% dal 2000. Il calo del prezzo dei tostapane non è un progresso nella lotta alla povertà».
Negli Stati Uniti esistono programmi governativi per i meno abbienti, ma sono diminuiti radicalmente rispetto agli anni ’60, quando il welfare di Lyndon Johnson ha dimezzato la povertà in 10 anni. «Erano programmi ambiziosi che non hanno ridotto la crescita economica americana, anzi. Gli Stati Uniti possono sradicare la povertà senza andare sul lastrico», assicura Desmond. L’ultimo esempio è la pandemia. Per due anni l’Amministrazione Biden ha versato a tutte le famiglie della classe lavoratrice assegni fra i 3.000 e 3.600 dollari per figlio all’anno, che sono bastati a dimezzare la povertà infantile. Una soluzione alla povertà in America secondo il sociologo sono dunque i programmi pubblici di facile accesso. «Per ogni dollaro che spendiamo per l’assistenza solo 22 centesimi finiscono nelle tasche di una famiglia povera. Perché gli Stati hanno molta discrezione e spesso tengono i soldi da parte per le emergenze. Inoltre solo un americano su cinque che ha diritto ai buoni pasto li riceve davvero e uno su sei non chiede crediti fiscali. Perché sono difficili da ottenere, nascosti sotto strati di burocrazia».
L’altra soluzione è un lavoro dignitoso. In America la maggior parte delle persone che vivono in povertà lavora moltissime ore. Ashley Jones, ad esempio, ha 18 anni e ogni giorno passa 8 ore da McDonald’s e 8 in un’azienda di latta per vivere in un piccolo appartamento in Arizona con la madre e il fratello di nove anni. Non è un’eccezione. Una ricerca del Mit calcola che il salario di sussistenza per una famiglia di quattro persone è di 24,16 dollari l’ora, mentre il salario minimo federale è fissato a 7,25 dollari. Con quello stipendio, due genitori con due figli devono lavorare 98 ore alla settimana ciascuno per sopravvivere.
Non è sempre stato così. Negli anni ’60, un lavoratore Usa su tre era sindacalizzato. Ma nel corso degli anni il potere dei dipendenti è diminuito. «Questo è sfruttamento — accusa Desmond — dobbiamo chiamarlo con il suo nome. Decine di milioni di americani non sono poveri per condotta personale. La povertà persiste perché molti lo vogliono».
Per far cogliere l’urgenza morale del problema, il sociologo spesso al posto della parola «povertà» — troppo teorica, troppo generica — parla dei suoi effetti: morte, violenza, paura, fame, freddo, insicurezza. E indica i comportamenti che tutti possono cambiare per sradicarla. Il primo è dire no alla segregazione, a vivere in comunità benestanti che concentrano i servizi e creano sacche di povertà. «Dobbiamo andare alla riunione di urbanistica della nostra città e dire di no a regole che impediscano ai più poveri o ai neri di abitare nel nostro quartiere, che desideriamo maggiore integrazione». Un altro muro da abbattere è quello dell’istruzione, dando ai genitori la scelta di mandare i loro figli alla scuola che vogliono, non solo a quella di quartiere. «I ragazzi che frequentano scuole integrate e con maggiore diversità economica e razziale se la cavano molto meglio, tutti», dice Desmond, che spiega come la discriminazione del mercato del lavoro nei confronti dei neri non è cambiata in 30 anni. «La fine della povertà è un traguardo assolutamente raggiungibile per gli Stati Uniti, senza aumentare le tasse — conclude —. Se il 10% che guadagna di più pagasse le tasse che deve, senza sconti, potremmo raccogliere 175 miliardi di dollari in più all’anno: abbastanza per tirare fuori tutti dal bisogno. Ma per farlo, dobbiamo riconoscere che la povertà è un abominio e che ci trascina tutti verso il basso».