Ecuador. Don Antonio, il prete che ha fatto la rivoluzione (senza armi)
Don Antonio Polo
Negli anni Settanta, Antonio Polo credeva nella rivoluzione. Ma sì, quella del Che, del movimento studentesco e della teologia della liberazione. Figuratevi quanto la cosa piacesse ai suoi superiori salesiani. Perché don Antonio era un seminarista animato dal fervore di farsi missionario. «Per fede, come mi esortava mia madre, e per servire il popolo di Dio, come diceva mio padre, che era più pratico», ci racconta. A 83 anni suonati, una lunga barba bianca e un basco che si toglie solo per dir Messa, padre Antonio Polo continua a fare il parroco e a osservare, dalla scalinata della chiesa di Salinas, il suo villaggio diventare una città. «La rivoluzione non l’ho fatta, ma l’ho vissuta io», racconta con occhi mai invecchiati.
«Si possono vincere i padroni - spiega -, che oggi sono le multinazionali, insegnando a un popolo, e a se stessi, come si passa dall’io al noi». L’Università, il ’68, il viaggio in Sudamerica “consigliato” dai superiori («Doveva durare quattro mesi, è stata la mia vita») e la folgorazione: per fare la rivoluzione non serve il fucile, ma insegnare a una massa di indios, che fino a qualche decennio fa venivano venduti insieme al campo di mais, che la terra non è solo “madre”, un’entità sacra e sfregiata dai conquistatori, ma che la si può comprare «e che ci si può trasformare in produttori collettivi - spiega il salesiano -, cosa che abbiamo ottenuto facendo leva sulla propensione ancestrale del popolo andino a cercare il “noi”, a sentirsi popolo e comunità. Il rapporto ancestrale con la terra e la necessità di sottrarsi alla condizione di sfruttamento, opportunamente coltivati con la Parola di Dio, hanno permesso di inculcare negli indios e nei meticci il senso del risparmio, la dignità del lavoro, l’efficacia della cooperazione; concetti facili per noi europei, che questo percorso lo abbiamo compiuto secoli fa».
Oggi, Salinas è un piccolo modello di sviluppo solidale ma il processo è stato lento. Don Polo fa spallucce. Nei decenni scorsi, mentre i latifondisti gli davano del comunista, alcune ong e anche i cattolici che sostenevano la lotta armata si chiedevano come mai, proprio questa ex testa calda della contestazione studentesca si ostinasse a scegliere la strada del negoziato. «Mi dicevano che la terra non si acquista, si conquista - commenta con un sorrisetto - e io sapevo bene cosa volesse dire; erano anni caldissimi, ma la storia parla chiaro: noi, comprando la terra dai padroni, i quali erano sotto pressione per la riforma agraria e sapevano di non potersi opporre a una soluzione non violenta del conflitto sociale, abbiamo creato delle comunità in cui i poveri sono diventati padroni in forma cooperativa delle valli che prima lavorano come schiavi; invece, chi ci criticava e sosteneva che si dovesse seguire la via di Sendero Luminoso e delle Farc sta ancora combattendo. Essere dalla parte dei poveri vuol dire cercare un modo reale per dare loro una vita dignitosa».
Don Polo ha incontrato nei giorni scorsi i delegati del Credito Cooperativo italiano e del Banco Codesarollo. Con lui, anche padre Pio Baschirotto, un altro salesiano veneto, dal fisico possente e dal sorriso contagioso. Missionari saliti sulle Ande a conquistarsi la fiducia degli indios vivendo nelle loro capanne, al gelo. Guide spirituali e sociali che hanno accompagnato un popolo a diventare proprietario di se stesso. Migliaia di indios strappati a condizioni di vita durissime, migliaia di ettari comprati dalle comunità, centinaia di villaggi “liberati” dalla povertà e dall’ignoranza nella Sierra che si estende tra le due cordigliere, sopra i tremila metri, dove neanche i conquistadores si spingevano volentieri. «Se ci sono tanti indios in Ecuador è perché sono fuggiti in montagna, lasciando agli spagnoli le terre migliori, mentre gli indiani d’America combattevano l’invasore. Sappiamo com’è andata a finire… »
La rivoluzione di questi salesiani, partita da Salinas e gemmata in tutta la Sierra, è fatta di piccoli numeri, se la guardiamo dall’alto delle dinamiche globali. Ciò che preoccupa padre Antonio, però, è conservarne i semi del cambiamento: «Ai giovani indios affidiamo una società collettiva e non collettivista, in cui devono esserci le cooperative e anche i privati, purché non sfruttino i lavoratori. Speriamo che i giovani indio e meticci sappiano preservarla dall’assalto snaturante delle multinazionali» è la riflessione del missionario. Che, cinquant’anni dopo ammette candido: «Non abbiamo fatto ciò che abbiamo fatto perchè eravamo spinti da una ideologia: abbiamo capito che in quel momento il bene del popolo era cooperare, li abbiamo accompagnati a negoziare, a riunirsi, a imparare tante cose. Abbiamo lavorato sodo con loro, animati dalla volontà di fare ciò che era scritto nel Vangelo. Tante cose le abbiamo capite anche noi dopo, vedendo cosa sa fare Dio». Don Antonio continua a fare il prete e non vuol neppur sentire parlare di “modello Salinas”, anche se in Ecuador obiettivamente lo è. «Non inseguiamo i modelli - ammonisce - cerchiamo sempre un percorso verso il bene e ricordiamoci che nessuno è perfetto e che i tempi cambiano». Sono cambiati anche quelli della rivoluzione.
IL MODELLO SALINAS E I TEMPI LUNGHI DELLO SVILUPPO SOLIDALE
Lo sviluppo ha i suoi tempi, specialmente nella versione equa e solidale. Cinquant’anni fa Salinas era un pugno di capanne costruite con massi di terra e un tetto di paglia, adagiate in una valletta del Bolivar, la provincia più povera dell’Ecuador. Mezzo secolo dopo, questo territorio è ancora il fanalino di coda di un Paese che arranca, malgrado le sue notevoli risorse naturali, ma Salinas è una cittadina ordinata dove persino gli ecuadoriani vengono a studiare come la cooperazione possa innescare un piccolo miracolo economico.
Sono una quindicina le imprese commerciali e industriali cresciute in questi anni su impulso dell’Operazione Mato Grosso e grazie ai prestiti del Credito Cooperativo italiano e del Banco Codesarrollo. Il miracolo è più educativo che economico: Salinas, un tempo legata all’estrazione del sale, è cresciuta perché i prestiti erogati dal Fepp - il fondo promosso dalla Chiesa ecuadoriana - hanno introdotto i campesinos al concetto di risparmio e alla pratica della cooperazione.
La cooperativa di Salinas - P.V.
«Vi parlerò con un linguaggio universale» ha detto Cesar Chamorro, presidente della Cooperativa di risparmio e credito Salinas ai delegati del Credito Cooperativo in visita nei territori andini dove sono concentrati gli investimenti promossi in questi vent’anni. Il linguaggio cui allude il giovane direttore generale è quello dei bilanci: crediti erogati per 7,5 milioni di dollari, risparmi raccolti per 5,7, un patrimonio che cresce dello 0,38 al mese.
Una donna al lavoro a Salinas - P.V.
Parlare di bilanci e finanza è sintomatico del salto culturale affrontato da questo popolo che affronta ogni giornata ringraziando Dio ma anche la Madre Terra e il Papà Chimborazo, uno dei vulcani della regione. Chamorro è uno dei 150 figli di campesinos analfabeti che si sono laureati grazie ai finanziamenti italiani. Numeri che non cambiano il mondo, ma che hanno cambiato la vita dei cinquemila soci della cooperativa e, tramite l’indotto, ai dieciila abitanti di Salinas: oggi non si limitano a mungere qualche vacca e a coltivare un campo di mais o di fave, ma producono cioccolato, tessuti d’alpaca, formaggi… La produzione di latte è passata da 180 a 4000 litri al giorno, tra le nuvole delle Ande, dove le grandi banche non arrivano, perchè la crescita è lenta. Del resto, correre fa male, a 3550 metri di quota.