EconomiaCivile

Crisi. L'empowerment degli attori sociali oltre il pendolo Stato-mercato

Carlo Borzaga e Gianluca Salvatori mercoledì 23 febbraio 2022

La commissione Ue ha riconosciuto il ruolo dell'economia sociale

Due crisi globali in poco più di un decennio hanno messo in moto una trasformazione sistemica. Simile per profondità, ma di segno opposto, a quella che ha segnato la fine dei 'trenta gloriosi', ovvero dei tre decenni del Secondo dopoguerra che nei Paesi occidentali hanno visto l’intreccio equilibrato di sviluppo economico e sociale. Come nel corso degli anni ’70 si ruppe il modello di relazioni tra Stato e mercato che aveva consentito la crescita di entrambi – aprendo la successiva fase che ha visto imporsi il primato del mercato, e dei nuovi attori di un’economia post- industriale e neoliberale, a scapito di poteri pubblici e movimenti sociali – oggi a cinquant’anni di distanza siamo di nuovo in una stagione di ripensamento del rapporto tra potere politico e potere economico. La crisi del 2008 ha messo in discussione l’autorità del mercato e, al suo interno, dell’impresa di capitali. Questa autorità negli ultimi decenni si era posta come risolutrice universale e più efficiente di ogni problema, fino a rivendicare la capacità di trattare temi ambientali e sociali con maggiore efficacia rispetto alle istituzioni pubbliche. L’ambizione di imprese e finanza di proporsi come centro delle decisioni che contano davvero è stata poi fiaccata ulteriormente dalla crisi del 2020, che ha reintegrato lo Stato nel ruolo di unica autorità capace di affrontare l’emergenza pandemica, sia sul piano sanitario che su quello economico.

La sensazione che ci comunicano le cronache di questi mesi è di un ritorno indietro, al tempo in cui il settore pubblico poteva giocare a tutto campo come perno della vita economica e sociale. Del resto, la storia insegna che quando scoppiano le crisi più laceranti l’autorità dello Stato cresce in proporzione. Ed è senz’altro vero che il potere dello Stato sulla vita delle persone e sui processi economici oggi è nuovamente centrale grazie a piani straordinari di intervento e all’iniezione di enormi quantità di risorse pubbliche. Era da molto tempo che non si guardava ai poteri pubblici con altrettanta confidenza. Ma è un’illusione ottica ritenere che la complessità sociale possa tornare a essere governata secondo il modello di organizzazioni statali sostenute da una visione centralista e burocratica. Così come, simmetricamente, è impensabile che il settore for profit, dopo la perdita di legittimità provocata dalla duplice crisi, possa riproporsi come soggetto centrale su cui fare affidamento per affrontare le criticità del nostro tempo. Nel nuovo scenario, la logica binaria a lungo prevalsa, imperniata sull’azione dello Stato e del mercato come gli unici due attori principali, viene sempre più spesso messa in discussione (anche da attori che fino a ieri ne erano sostenitori) a favore di una visione pluralista che allarga lo spazio all’intervento delle organizzazioni della società civile, a partire da quelle dotate della capacità imprenditoriale di produrre beni e servizi in grado di soddisfare domande che altrimenti resterebbero insoddisfatte o che possono essere soddisfatte meglio rispetto ai due attori classici. È qui che entra in gioco il crescente riconoscimento della rilevanza dell’economia sociale, attestato anche dalla posizione assunta dalla Commissione europea con il suo recente Piano d’azione. Nell’economia sociale si concretizza infatti un’idea di come vorremmo che fosse la società futura. Una visione che dà peso alla ricerca di lavori che abbiamo senso, alla giusta remunerazione dei produttori, alla produzione di beni e servizi non finalizzati alla massimizzazione del lucro ma al benessere delle persone, alle soluzioni che risolvono problemi che le imprese convenzionali non trovano conveniente affrontare perché troppo rischiose e non abbastanza profittevoli, all’assunzione di responsabilità nei confronti delle esternalità negative di natura sia ambientale sia sociale.

Ed è, come dimostrano i dati, una proposta che attraversa la frontiera generazionale risultando molto attraente per chi, entrando ora nella vita adulta e nel mondo del lavoro, non vuole rassegnarsi alla separazione tra il proprio agire e un criterio di senso, e neppure si limita a vedere tutto il suo impegno solo in relazione al denaro che ne può trarre. L’economia sociale – definizione europea che in Italia oltre al Terzo settore ricomprende anche tutte le cooperative – esprime fondamentalmente l’aspirazione di uscire dal movimento pendolare tra primato dello Stato e primato del mercato. È l’affermazione che la realtà contiene una miriade di altre combinazioni possibili, in grado di affrontare con maggiori possibilità di successo squilibri e disuguaglianze sociali. È un approccio in cui opera una concezione diversa del rapporto tra potere politico e potere economico: non l’inevitabile e altalenante supremazia dell’uno sull’altro ma l’esercizio responsabile di un potere condiviso, in cui agisce una pluralità di soggetti mossi anche da interessi altruistici o da accordi condivisi che vanno oltre le logiche tipiche del mercato inteso come 'scambio per il guadagno'. L’idea di un empowerment degli attori sociali in grado di promuovere modelli distribuiti e partecipativi di esercizio democratico del potere, in alternativa alla burocrazia centralista e topdown, può sembrare quanto di più distante rispetto alla nostra esperienza comune.

Eppure, è proprio quanto afferma l’art.55 del Codice del Terzo settore, quello sulla 'amministrazione condivisa'. Un’innovazione di cui ancora forse non si è colto pienamente l’impatto. Ma il principio è fissato, e si basa sull’idea che la responsabilità di produrre soluzioni valide per problemi di interesse generale è sottratta alla competenza esclusiva dell’autorità pubblica e riguarda invece la collaborazione tra una pluralità di soggetti ugualmente titolati ad occuparsene. Dare il giusto spazio a questa consapevolezza è la migliore messa a frutto della doppia crisi che abbiamo vissuto in questi anni. Evitando che ad ogni nuova crisi il pendolo continui a muoversi solo e inesorabilmente tra il potere dell’autorità pubblica e il potere del profitto.