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Energia. Quanta Italia c'è nel futuro della fusione nucleare

Davide Re mercoledì 10 aprile 2024

Una foto orizzontale del Tokamak al MIT

«Se parliamo di utilizzo commerciale della fusione nucleare credo che non ci arriveremo prima del 2050 – spiega senza indugio Piero Martin, fisico e professore ordinario all’Università degli Studi di Padova, responsabile per la fisica del progetto Dtt –. Anche se già prima pensiamo verrà collaudato un prototipo di centrale a fusione nucleare e verranno sciolti gli ultimi nodi riguardanti questo processo fisico e la sua gestione».

Sarà quindi l’ottenimento di una energia pulita, illimitata, accessibile a tutti la vera chiave per salvare il pianeta dall’inquinamento e dai cambiamenti climatici in corso? La risposta potrebbe essere «sì». Infatti, nonostante le forti tensioni geopolitiche in corso, i principali Paesi continuano a collaborare al progetto “fusione nucleare”. E i passi in avanti sono continui ed evidenti. Intanto, è finalmente disponibile un nuovo tipo di magnete, che è riuscito a generare un campo magnetico di venti Tesla, dimostrando di poter essere un ottimo componente per la costruzione di una centrale a fusione.

I progressi tra Stati Uniti e Asia

L’obiettivo è stato raggiunto per la prima volta all’alba del 5 settembre 2021, nei laboratori del Plasma Science and Fusion Center del Massachusetts Institute of Technology (Mit), ma solo oggi questa tecnologia è finalmente disponibile. Poi è stato battuto un nuovo record per l’ottenimento di energia da fusione, grazie al reattore KStar (chiamato anche “Sole artificiale”) dell’Istituto sudcoreano per l’energia da fusione (Kfe), che dopo le recenti modifiche è riuscito a contenere per 48 secondi del plasma (gas ionizzato, costituito da particelle, elettroni e ioni, la cui carica elettrica totale è nulla) alla temperatura di 100 milioni di gradi. E se i record registrati finora fra Europa e Stati Uniti hanno interessato la quantità di energia generata, quest’ultimo risultato evidenzia la capacità del reattore sudcoreano a confinamento magnetico di sostenere per tempi lunghi le temperature incredibilmente elevate che il plasma deve raggiungere perché avvenga la reazione di fusione. A fare la differenza qui è stato un nuovo materiale impiegato, il tungsteno, utilizzato per sostituire i divertori, ossia le parti interne della struttura a forma di ciambella (il tokamak) sulle quali viene governato il plasma.

Gli avanzamenti in Europa

Il materiale è lo stesso che sarà utilizzato nel reattore Iter, in pratica la prima vera e propria centrale pilota a fusione. Il tungsteno è anche il materiale che sarà utilizzato per Demo, altro prototipo di reattore nucleare a fusione studiato dal consorzio europeo Eurofusion come ideale successore di Iter, oltre che per la macchina Dtt, il Divertor Tokamak Test in costruzione nel centro di ricerca dell’Enea a Frascati e che dovrebbe entrare in funzione intorno al 2029. La grande novità nelle ricerche sulla fusione è però nel fatto che questo campo di ricerca ambizioso non vede più fra i protagonisti solo le grandi macchine come Iter, Demo, Dtt o KStar: in questo momento c’è un grande interesse per la fusione da parte di startup e nuove società private.

La prima centrale a inizio anni Trenta

«Eni prevede di realizzare la prima centrale nucleare a fusione industriale nei primi anni Trenta», ha detto la responsabile del gruppo per la fusione, Francesca Ferrazza, in audizione, martedì 9 aprile alla Commissione Ambiente del Senato. Il gruppo italiano prevede di contribuire a realizzare a metà degli anni Venti il primo impianto pilota Cfs-Sparc. Per i primi anni Trenta è previsto il primo impianto industriale collegato alla rete, il Cfs-Arc, e nella seconda metà del decennio nuove centrali.

Eni da tempo è impegnata nei progetti legati alla fusione nucleare: infatti è azionista strategico del Commonwealth Fusion Systems (Cfs), spin-out del Mit per l’applicazione industriale della fusione a confinamento magnetico, collabora sempre con il Mit nel programma Lift (Laboratory for Innovation in Fusion Technology), partecipa al progetto Dtt di Enea e mette a disposizione dei ricercatori il proprio Green Data Center che, con la sua grande potenza di calcolo, permette di utilizzare modelli matematici molto complessi per descrivere la fisica del plasma e simularne il comportamento.