Bene comune. Aziende nuova maniera: con le Società Benefit c’è vita oltre il profitto
Un'immagine degli impianti della Lati Industria Termoplastici, con sede a Vedano Olona (Varese), Società Benefit da giugno del 2022
Erano appena 200 nel maggio 2018, cinque anni dopo le Società Benefit in Italia sono già oltre 3mila. Un numero ancora esiguo rispetto al totale delle società in Italia, ma comunque un’avanguardia consistente e in continua crescita. A sottolineare alcuni aspetti di queste nuove forme giuridiche è stato nei giorni scorsi a Milano un seminario presso lo studio Andersen, che offre consulenza a gruppi multinazionali, società e famiglie, grazie anche alla testimonianza di esperti ed imprenditori. Le Società Benefit rappresentano un’evoluzione del concetto stesso di azienda: integrano nel proprio oggetto sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di perseguire una o più finalità di beneficio comune. Su 3mila Società Benefit in Italia, sono poi 217 quelle che hanno conseguito la certificazione B. Corp, superando un assessment di valutazione sulla sostenibilità delle proprie performance. Secondo Francesco Marconi, partner di Andersen e Coordinatore desk innovazione sostenibile, la normativa sulle Società Benefit introdotta nel 2015, che ha fatto dell’Italia il primo Paese dopo gli Usa a introdurre questo status giuridico, è «impone degli obblighi di trasparenza volutamente morbidi ed è stata colta soprattutto dalle società che già credevano di voler andare in una certa direzione. Ora vediamo sempre più soggetti che vi si avvicinano perché spinti da altri, magari dalla loro stessa catena di fornitura».
In particolare, continua Marconi, «la maggior parte delle 3mila aziende che oggi sono Società Benefit sono società medio-piccole del mondo dei servizi. Le Società Benefit possono scegliere quale “cornice” o standard adottare, a patto che lo stesso sia esauriente ed articolato, credibile, trasparente e sviluppato da un ente terzo, che non sia cioè controllato dalla società stessa». Secondo Marconi, «il mondo benefit conoscerà un ulteriore sviluppo, magari imposto da soggetti medio-grandi. Ormai sempre più sui bandi ci sono anche premialità per le Società Benefit, anche se il vero nodo resta quello delle verifiche».
Per Guido Ferrarini, professore emerito di Diritto commerciale all’Università di Genova e presidente del comitato scientifico di Nedcommunity, «le società che non abbiano strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati (e non siano banche o assicurazioni) possono ricevere vantaggi dal regime della benefit in termini di commitment agli stakeholder e alla sostenibilità. Tali vantaggi sono accentuati dall’appartenenza a catene di fornitura e possono anche palesarsi nei rapporti con istituzioni finanziarie e investitori professionali». Per quanto riguarda le società con strumenti finanziari quotati, esse «ricevere vantaggi dal regime della benefit integrato dalla disciplina della reportistica di sostenibilità, che può essere comunque frutto di scelta volontaria».
Durante il seminario, tra gli imprenditori che hanno portato la propria testimonianza Giangiacomo Ibba, presidente di Fratelli Ibba di Abbi Group, storico operatore della grande distribuzione sarda con un fatturato di oltre 700 milioni di euro e 3mila addetti, diventata a gennaio Società Benefit. «Gestisco un’azienda che nasce come azienda familiare e qualche anno fa mi sono chiesto quale fosse la vera motivazione dello sviluppo, considerando che non credo sia il denaro a fare la vita delle persone – ha osservato Ibba –. Credo che poter creare un’impresa che alimenta il territorio sia il vero fine della mia azienda». Essere Società Benefit, per Ibba, significa «far indossare a un’azienda un vestito, un vestito che aiuta ad essere più responsabili, perché si è preso un impegno e bisogna mantenere coerenza, senza scadere nel marketing. Inoltre, possiamo fare da esempio: qualche azienda nostra cliente ha già cominciato a chiedersi che cosa significasse essere benefit, per cui il messaggio comincia a diffondersi». Sulla stessa lunghezza d’onda Michela Conterno, amministratrice delegata di Lati Industria termoplastici, con sede a Vedano Olona (Varese), fatturato di 200 milioni di euro, 330 addetti e una quota di export del 70%, Società Benefit da giugno dello scorso anno. «Siamo una multinazionale sempre meno tascabile che rientra anche nei parametri di obbligatorietà sulla sostenibilità – spiega Conterno –. Anche se il concetto arriva dagli Usa, io trovo la Società Benefit molto italiana nelle sue radici, perché valorizza la relazione tra impresa, famiglia e sostenibilità che è molto sottovalutata. L’importanza che diamo alla persona la riscontriamo ad esempio nella volontà di non voler licenziare: noi imprese familiari davanti a un calo della domanda abbiamo ben chiaro lo scopo di preservare l’occupazione. Noi abbiamo curato molto la stesura del beneficio comune, inserendo il benessere della persona, l’attenzione al territorio. Anche in termini di competitività, l’essere Società Benefit attrae talenti ed è un fattore di differenziazione. Inoltre abbiamo inserito, per quanto riguarda i fornitori, un punteggio in base al loro essere benefit o meno».
Si può peraltro perseguire certi obiettivi di bene comune anche senza essere formalmente Società Benefit. È il caso esposto da Andrea Ferlin, ceo di Professional Link telecommunications, che ha basato la crescita della sua azienda «sul fattore umano, alimentando una rete di relazioni che ci rendesse affidabili agli occhi del cliente». Per Ferlin, in azienda ci deve essere «un ambiente coeso, con un gruppo di persone che si trasforma in una squadra, in una comunità. Per questo cerchiamo di alimentare in tutti i modi il concetto di felicità aziendale, così che le persone tornino a casa la sera più felici di come sono arrivati la mattina al lavoro».
Per Silvia Stefini, presidente di Chapter Zero Italy, The Nedcommunity Climate forum, al di là di tutto «sui numeri non finanziari, come sulla sostenibilità, serve la capacità di ricondurre una società a veri obiettivi. La differenza tra Società Benefit e una normale impresa è anche nell’esprimere un obiettivo e renderlo pubblico prendendo un impegno volontario. Poche sono le società che si impegnano anche nel percorso per diventare B. Corp. L’importante è individuare il giusto standard di riferimento e comunicarlo poi agli stakeholder di riferimento. Ciascuna azienda può scegliere a quale livello di profondità andare. Ma ciò che si comunica deve essere vero e supportato da un processo che ne consenta il controllo».
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