Secondo l'indagine Istat sull’innovazione nelle aziende,
le realtà produttive italiane investono sempre meno (solo il 50,9% ha introdotto almeno una novità all’interno dei propri processi)
e faticano ad affidarsi a professionisti esterni per migliorare le dinamiche aziendali. Una pratica, quest’ultima, molto diffusa Oltreoceano, ma scarsamente adottata nel nostro Paese. Tra gli imprenditori di successo che si sono affidati a un
business coach, per esempio, compaiono l’ex ceo di Google
Eric Schmidt, la giornalista
Oprah Winfrey e
Steve Bennet, guru della Silicon Valley. La stessa ricerca, condotta dalla società americana Exactly where you want to be, dimostra come il 90% dei leader che si sono rivolti a un
business coach abbiano registrato una crescita importante per le proprie attività. Secondo l’esperto
Antonio Panìco, fondatore di Business Coaching Italia, «sono in particolare cinque le ragioni che rendono necessario per l’azienda rivolgersi a un professionista esterno». La prima ragione si verifica quando
l’imprenditore vuole sbloccarsi perché non è più produttivo. In genere questo succede perché non ha un gruppo di collaboratori autonomi e, senza il suo continuo supporto e presenza, le attività non vengono portate a termine nei tempi adeguati. Trovandosi di fatto sempre impegnato a risolvere problemi operativi, non ha tempo per la gestione strategica della propria azienda. La seconda ragione riguarda
le aziende che stanno già performando bene ma desiderano aumentare il fatturato e profitto, ma non hanno una strategia precisa per riuscirci. La terza ragione per avere un
business coach in azienda è la
volontà di migliorare l’organizzazione interna, magari alla luce di criticità che impediscono lo svolgimento delle attività in modo fluido ed efficiente, come per esempio una presenza poco chiara di organigrammi, flussi di lavoro, procedure, mansionari. La quarta ragione riguarda la
crisi aziendale, quando tutte le statistiche sono crollate. Si tratta di una vera e propria emergenza in cui vanno messe in atto delle procedure, anche radicali, per riprendere quota. La quinta e ultima ragione, ma non importanza, è
l’avviamento di una start up; questo rende necessario un supporto esterno in grado di organizzare, strutturare e guidare ogni parte del processo affinché si possa subito partire con il piede giusto. Secondo l’esperienza maturata da Panìco affiancando, assieme al suo team, centinaia di aziende nella loro riorganizzazione, sono
tre i pilastri da cui gli imprenditori possono ripartire per aumentare i margini di guadagno, offrire un ambiente di lavoro stimolante e allo stesso tempo disporre di più tempo da dedicare alla vita privata, come alle strategie future di crescita dell’azienda.
Pianificazione: Analizzare lucidamente gli scenari possibili per capire gli obiettivi che l’azienda sarà in grado di raggiungere nel proprio mercato. Gli imprenditori tendono a farsi scoraggiare e intimorire dagli aspetti di macroeconomia che li circondano, ma la maggior parte delle pmi non sono o possono non essere influenzate da questi scenari. Per esempio, i grandi player, nei momenti di crisi tendono a ridurre le attività di promozione e comunicazione e questo potrebbe essere il momento giusto, per le realtà piccole, di conquistare nuove quote di mercato.
Conoscere i numeri della propria azienda: Sono molti gli imprenditori che non conoscono nel dettaglio i propri numeri, né il proprio punto di pareggio del bilancio aziendale. Ma è proprio all’interno dei numeri che si nascondono le risposte ai desideri dell’imprenditore: maggior tempo libero, la possibilità di inserire nuovo personale o di acquistare macchinari. Conoscere i dati, saperli leggere e avere le capacità di modificare lo status quo in risposta a bassi margini è indispensabile.
Organizzazione: Ogni dipendente deve sapere cosa fare, quali obiettivi raggiungere e la corretta sequenza delle azioni necessarie a perseguirli. È fondamentale che siano ben note, al lavoratore come all’imprenditore, le metriche con le quali saranno misurati i risultati raggiunti, in modo da comprendere in tempo se sia necessario correggere eventuali errori o si stia procedendo nella giusta direzione.
Inoltre la ricerca “The Born Digital Effect”, condotta da Coleman Parks Research e Oxford Analytica, analizzando le risposte di 1.000 leader d’azienda e 2mila lavoratori, racconta uno spaccato che deve far riflettere le aziende. Il 58% dei leader d’azienda pensa ancora che i lavoratori più giovani preferiscano lavorare in ufficio. Al contrario, il 90% dei nativi digitali auspica un modello di lavoro ibrido, se non completamente da remoto. In particolare, i valori cui i nativi digitali fanno principalmente riferimento, per decidere se lavorare o meno in un determinato contesto aziendale sono: autonomia o la possibilità di operare in un ambiente a elevato tasso di fiducia (83%), il riconoscimento economico delle proprie performance (81%), la presenza di una leadership forte e visibile (79%). Il business coach ha cambiato negli ultimi anni il paradigma della continua e necessaria formazione professionale. Tra il fenomeno delle dimissioni di massa e i mercati in continua evoluzione, «le persone, in qualsiasi ambito, vogliono essere aiutate a realizzare concretamente i propri obiettivi, anziché indugiare troppo sulle strategie. Per questo diventa centrale la figura del coach, in rapida ascesa a livello internazionale, ma ancora poco compresa nel mercato italiano. Ciò dipende in larga parte dal divario presente nel nostro Paese – spiega Panìco, vincitore del premio internazionale Ceo Today Management Consulting Awards nel 2021 e 2022 – dove ai coach di successo se ne affiancano altri con risultati, anche in termini di fatturato annuo, tutt’altro che incoraggianti. È questo il motivo che mi ha spinto a scrivere il mio nuovo libro Coach ricco, coach povero (Uno Editori)». Il volume mira ad aiutare i professionisti italiani del coaching a migliorare le proprie performance, così come imprenditori e manager potranno ottenere successo nel proprio business, applicando i principi base del volume concretamente nelle proprie realtà lavorative. «L’obiettivo – precisa Panìco – è innanzitutto spiegare come il successo passi necessariamente attraverso una riorganizzazione pragmatica dell’azienda, il reddito annuo, la reputazione e la capacità di mantenere fidelizzati i propri clienti. In quanto professionisti dotati di expertise, competenze ed esperienza per supportare la crescita sul mercato di un’attività, i business coach hanno necessità di possedere una forte mentalità, di adottare modelli efficaci e una capacità di comprensione a 360 gradi delle esigenze del cliente. Ciò include saper conoscere, prevedere e quindi controllare le fasi di cambiamento, ottenere risultati concreti e misurabili e affermarsi, con i giusti strumenti, in un mercato in costante evoluzione. La preparazione di un coach, in definitiva, incide in modo sensibile sulla serenità e sulla realizzazione professionale del cliente che si affida a lui e a beneficiarne saranno di conseguenza anche i dipendenti, non solo il fatturato». Si potrebbe pensare che quella del coach sia un’attività professionale simile a quella di uno psicologo. Tuttavia non sono necessari anni di formazione intensa prima di poter esercitare. Questo non significa che un coach di successo non debba frequentare dei master o corsi specifici in cui apprendere le competenze fondamentali per operare. La qualifica professionale del coach è regolata in Italia secondo la legge n. 4 del 14 gennaio 2013, ma non esiste un albo ufficiale a cui iscriversi. Per questo motivo non esiste un percorso di formazione univoco per diventare un professionista in questo ambito. Kairos Italia, per esempio, organizza il master in Orientamento e Coaching, un percorso che ha lo scopo di formare i professionisti capaci di effettuare servizi di coaching e di orientamento in qualsiasi contesto.