Il punto. Lira e prezzi affondano la Turchia di Erdogan
Il presidente turco Erdogan saluta alcuni sostenitori (Ansa)
Il peggiore incubo del presidente Recep Tayyip Erdogan negli ultimi mesi non si chiama Siria o Pkk, ma dollaro. La lira turca, la moneta nazionale, nel 2018 fino a questo momento ha perso il 29% sulla divisa americana, con tutte le conseguenze per gli imprenditori, che presto potrebbero vedere anche posti dazi sulle loro esportazioni negli Usa, che ammontano a circa 1,7 miliardi di dollari. Una situazione della quale le agenzie di rating si sono accorte da tempo, tanto che il presidente Erdogan vorrebbe crearne una nazionale. Il timore è che possa spaventare definitivamente gli investitori.
Una situazione causata da una politica monetaria scriteriata, con denaro troppo a buon mercato, tassi di interesse ridotti al minimo, che Erdogan ha sempre proibito di innalzare, a uso e consumo degli speculatori. Perché il capo di Stato ci ha messo del suo e in modo pesante. Prima con gli annunci su un progressivo controllo sulla Banca Centrale turca e poi con la scelta del genero, Berat Albayrak come ministro delle Finanze, decisione a cui è seguita l’ennesima svalutazione della lira e l’impennata dell’inflazione al 15,5%, con il neo ministro che non ha ancora chiarito come farà a fronteggiarla. Le tensioni con Washington degli ultimi giorni, non hanno fatto altro che peggiorare.
Ieri ci sono stati i primi incontri pacificatori con l’amministrazione Trump. La lira turca ha chiuso a 5,29 contro il dollaro a fronte del massimo storico di 5,42 toccato lunedì. Ma si tratta di benefici di breve durata. «Una riappacificazione con gli Usa – spiega ad Avvenire l’economista Emre Deliveli – servirà giusto a evitare che, per il momento, il cambio sul dollaro sfondi il muro delle sei lire turche. La verità è che tutte le fragilità dell’economia turca stanno venendo a galla. La crescita appare ancora forte, ma le crepe sono tante, dal real estate alle banche».
Gli occhi adesso sono puntati sul rapporto con la Casa Bianca e sugli istituti di credito. Se con Washington non verrà trovato un compromesso sul rilascio del pastore Andrew Brunson, arrestato con l’accusa di terrorismo a Smirne due anni fa, allora la crisi, politica e finanziaria potrebbe aggravarsi e c’è già chi pensa a un intervento massiccio del Fondo Monetario Internazionale, con Erdogan costretto a mettere da parte il suo noto orgoglio e ad accettare.
Già così, gli imprenditori hanno visto bruciare milioni di dollari a causa della questione del cambio, se si considera che la Turchia è un Paese con un export ad alta intensità di importazione e un mercato interno che non consuma più come un paio di anni fa. I più esposti, sono gli imprenditori nella distribuzione e nei beni di consumo che operato soprattutto nel mercato domestico. Una progressiva erosione dei margini di guadagno, sul lungo termine potrebbe mettere a rischio migliaia di posti di lavoro.
C’è poi il problema, grosso, delle banche. Goldman Sachs nei giorni scorsi ha messo in guardia sul fatto che un ulteriore deprezzamento della lira fino a 7,1 per dollaro porterebbe a erodere buona parte del capitale bancario. «Gli investitori – continua Deliveli – iniziano a essere preoccupati sulla qualità degli asset bancari. Gli istituti di credito sono stretti fra le pressioni del presidente Erdogan di concedere crediti e i tentativi di contenimento operati dalla banca Centrale, senza contare i finanziamenti ai maxi progetti del Presidente, per i quali hanno sborsato 89 milioni di dollari».
Lo scorso giugno Moody’s ha bacchettato 17 banche turche sulle loro riserve, troppo dipendenti nel medio termine della valuta americana, così soggetta a fluttuazioni.
L’Akp, il Partito del presidente Erdogan, continua a ostentare sicurezza. Cevdet Yilmaz, responsabil economico, ha detto che presto o tardi le fluttuazioni passeranno. Alcuni parlano dell’irrinunciabile teoria del complotto. I più preoccupati, temono che questo sia solo l’inizio e che Trump abbia deciso di colpire Erdogan su l’unica cosa dove è davvero vulnerabile e che potrebbe farlo cadere: l’economia.