Usa. Trump, barriere «flessibili» per gli amici
La firma sui dazi americani che inaugurano la nuova guerra commerciale scatenata da Donald Trump contro tutti – la comunità internazionale, i mercati, le istituzioni finanziarie globali, ultima in ordine di tempo la Bce guidata da Mario Draghi, e persino una buona fetta del partito repubblicano visto che oltre 100 parlamentari avrebbero chiesto di desistere – è stata apposta ieri alle 15.30, ora di Washington, con una cerimonia in pompa magna alla Casa Bianca. Esigenze di sicurezza nazionale, la motivazione addotta dall’amministrazione, che accusa quelle «pratiche commerciali ingiuste» colpevoli di aver trasformato gli Usa nel più grande importatore al mondo di acciaio e alluminio, decimando le industrie domestiche e causando la perdita di 94mila posti di lavoro. Il tycoon si era detto «impaziente » di firmare le nuove misure – barriere al 25% sull’acciaio e al 10% sull’alluminio, usati nel settore della Difesa – sin dal mattino su Twitter, annunciando subito però «grande flessibilità e cooperazione verso quelli che sono i veri amici e ci trattano equamente, sia sul piano commerciale che militare».
Un criterio ribadito poco più tardi in una riunione di governo alla Casa Bianca, l’ultima di Gary Cohn, «un globalista che tuttavia mi piace ancora e che ho la sensazione ritornerà», ha sottolineato il presidente, riferendosi al consigliere economico dimissionario perché contrario alla dichiarazione di guerra commerciale. «Saremo molto equi e molto flessibili», ha insistito Trump. «Abbiamo relazioni molto buone con l’Australia, abbiamo un’eccedenza commerciale con questo Paese formidabile, un partner di lunga data», ha detto anticipando la sua esenzione dalle tariffe, che entreranno in vigore nel giro di 15 giorni, a Canada e Messico. «Faremo qualche cosa con altri Paesi», ha proseguito, mostrandosi però molto critico con Berlino, e non solo sul commercio. Per ora, tutti i Paesi interessati dalle nuove tariffe, secondo fonti esterne alla Casa Bianca citate dall’agenzia Ap, saranno invitate a negoziare esenzioni se possono affrontare la minaccia che il loro export pone agli Stati Uniti. Ma proprio l’Australia con altri dieci Stati (Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam) hanno formalmente istituito la Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), un accordo che riguarda un mercato di mezzo miliardo di persone e che vale il 13,5% dell’economia globale.
Si tratta in pratica di una versione 'dimagrita' dell’accordo di partenariato Trans-Pacific Partnership ( Tpp) in chiave anti-Usa, visto che abbassa i dazi proprio mentre il presidente degli Stati Uniti li innalza. Anche l’Unione europea, guidata dall’asse Merkel-Macron, è già pronta a rispondere provocazione su provocazione, e a varare a sua volta un piano anti-Trump che contrasti a tutto campo la deriva protezionistica americana: non solo l’imposizione di dazi e tariffe, ma anche il taglio delle tasse che per Bruxelles e le capitali europee favorisce in maniera ingiusta e inaccettabile le imprese a stelle e strisce. Già affinata la lista di prodotti 'made in Usa' da colpire per un totale di 3,5 miliardi di euro, ben oltre i 2,8 miliardi d’impatto delle barriere Usa sull’acciaio e alluminio europeo. Per quel che riguarda invece gli investimenti della Cina, su cui Washington si prepara a un giro di vite senza precedenti, l’obiettivo di Trump è soprattutto quello di punire il Paese guidato da Xi Jinping, accusato di furto sul fronte dei diritti di proprietà intellettuale. Una guerra commerciale, per Pechino, non è mai la giusta soluzione colpendo «sia il promotore sia il bersaglio in un mondo globalizzato»: nel caso maturi, «la Cina darà una giustificata e necessaria risposta», ha avvertito ieri il ministro degli Esteri Wang Yi.