Commercio. I dazi Usa affondano le borse e Trump vuole più carne americana in Europa
«America First» passa anche da un quarto di manzo. Un bovino allevato negli Usa, naturalmente. Con la cui polpa, «la migliore del mondo», il presidente Donald Trump vuole sì deliziare il palato dei consumatori europei, ma soprattutto "sfamare" elettoralmente i farmer del Montana o del Wyoming che in gran numero lo hanno votato, promettendo loro «una crescita di 270 milioni di dollari all’anno». Gli allevatori americani «avranno una quota garantita del mercato in Europa», ha spiegato infatti Robert Lighthizer, rappresentante speciale per il Commercio, augurandosi che «l’Unione Europea approvi rapidamente l’accordo».
Si tratta dell’intesa proclamata ieri sera dalla Casa Bianca mentre le Borse di tutto il mondo cedevano sotto i colpi dei nuovi dazi del 10% su 300 miliardi di beni cinesi, barriere doganali alzate solo poche ore prima dalla stessa sede. Un accordo di principio con la Ue, annunciato a metà giugno, che prevede appunto una quota maggiore per la carme bovina Usa «di alta qualità» ovvero senza ormoni. Risolvendo così «definitivamente» quello che Trump ha definito «un vecchio contenzioso» tra Stati Uniti e Unione Europea.
I mercati sono invece ben più preoccupati per l’altra diatriba, quella degli Usa con la Cina. Che aggiungendo ai 250 miliardi di importazioni già sottoposte a tariffe del 25% questi altri 300 miliardi di dollari, di fatto, coprirebbe da settembre di dazi l’intero interscambio fra i due Paesi. Il mese prossimo dovrebbero però riprendere sul suolo americano i negoziati dopo l’ultimo summit di Shanghai, ancora interlocutorio ma definito comunque da entrambe le parti «costruttivo». Intanto la Cina ha fatto sapere che «dovrà prendere contromisure», ma ha poche munizioni nel suo arsenale, potendo tassare – dopo aver colpito con tariffe simmetriche 110 miliardi di prodotti americani – solo altri 50 miliardi di export Usa.
Già nelle prime ore di contrattazioni, seguendo la rotazione della Terra, il rischio escalation si è fatto sentire sui mercati asiatici (Tokyo ha perso il 2,5% e Hong Kong il 2,3%). Nel Vecchio Continente, Parigi ha lasciato sul terreno il 3,5%, Francoforte il 2,43% , Londra l’1,76% mentre Milano è riuscita a contenere le perdite al -1,6%, bruciando però virtualmente in una sola seduta 14 miliardi di euro. Anche Wall Street, quando Trump festeggiava il manzo yankee, era sotto di quasi l’1%. Il tycoon ha spiegato di voler introdurre nuove tariffe nei contronti della Cina perché i negoziati, ripresi nei giorni scorsi, vanno a rilento. E perché Pechino non ha rispettato due promesse: bloccare le vendite di Fentanyl negli Stati Uniti e acquistare una grande quantità di prodotti agricoli americani, in particolare la soia, per la gioia, ancora una volta dei suoi sostenitori farmer.
Se dal piano del consenso politico passiamo però a quello puramente economico, non è che la guerra commerciale contro Pechino abbia sinora giovato granché agli Stati Uniti. Come notano i ricercatori dell’Ispi, nei primi cinque mesi del 2019 il disavanzo Usa verso la Cina si è effettivamente ridotto del 10%, sostenendo per un terzo l’aumento del Pil. Ma ciò che dall’avvio della presidenza Trump ha contribuito maggiormente alla crescita economica americana è stato l’aumento dei consumi e degli investimenti privati favorito dalle politiche di riduzione delle imposte dirette e dai bassi tassi d’interesse.
Ecco perché, osserva l’agenzia Bloomberg, le "sparate" di Trump, più che a Pechino, sembrano mirare a un vicino di casa a Washington: il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell. La Fed ha spiegato infatti che i tagli ai tassi sono giustificati dalle tensioni commerciali che gravano sull’economia. È plausibile pertanto che il presidente Usa – è il ragionamento di molti osservatori – si sia premurato subito di crearne altre di modo che la sua Banca centrale tagli ancora il costo del denaro. Come "The Donald" chiede da tempo.