Economia

La crisi dei redditi. Tridico (Inps): stop al lavoro povero

Nicola Pini venerdì 18 febbraio 2022

Nella foto, un trasportatore, settore in cui i salari sono bassi. In Italia 4,5 milioni di lavoratori guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora Pasquale Tridico

Cresce il Pil ma non il benessere. La fotografia di Pasquale Tridico dell’Italia che esce dalla pandemia non è accomodante. «Le caratteristiche già negative di disuguaglianza, precarietà e frammentazione del lavoro sono aumentate anche con la ripresa dell’ultimo anno», spiega in questa intervista il presidente dell’Inps, professore di Economia del lavoro ed economista dall’approccio fuori dal tradizionale mainstream, convinto che occorra varare rapidamente tanto il salario minimo quanto la legge sulla rappresentanza sindacale, orientando la ripresa su investimenti e innovazione e non sulla compressione salariale. Serve «una crescita più orientata verso lo sviluppo umano», sottolinea, che valorizzi il lavoro e permetta anche maggiore sostenibilità della spesa pubblica e dello stesso sistema previdenziale. Perché ai bassi salari di oggi non potranno che corrispondere pensioni basse domani. E se lo Stato in futuro dovrà integrarle significa che oggi sta di fatto sostenendo il lavoro povero.

Professor Tridico, i salari italiani perdono terreno da anni. Quali numeri emergono dai dati Inps e quali sono i motivi di queste tendenze? In Italia 4,5 milioni i lavoratori guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora. Una cifra impressionante, che vuol dire salari mensili netti intorno o sotto i mille euro. Si concentrano in settori quali la logistica, la ristorazione, il turismo, i beni culturali e l’assistenza alle persone. Sotto 9 euro stanno il 38% dei giovani, il 16% degli over 35 anni, il 21% degli uomini e il 26% delle donne. Dagli inizi degli anni 90 i salari, in media ed in termini reali, si sono ridotti di circa il 2%. I motivi vanno ricercati da una parte nella frammentazione del mercato del lavoro, che utilizza, in alcuni settori, il salario e la flessibilità come una leva di competizione. Dall’altra la scarsa dinamica della produttività del lavoro, che non permette in molti casi di- stribuzione di ricchezza. Ma è un cane che si morde la coda, e che ha portato molti economisti – inclusi Nobel per l’Economia - a ritenere che in molti casi gli stessi aumenti di salario possono portare aumenti di produttività, poiché spingono le produzioni su frontiere tecnologiche più elevate, allocano più efficientemente il lavoro e orientano investimenti a più alta intensità di innovazione, con maggiori guadagni di produttività. La competizione sul costo del lavoro, sui bassi salari, disincentiva invece gli investimenti innovativi e comprime il potere di acquisto.

«In Italia 4,5 milioni di lavoratori guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora con entrate mensili nette intorno o sotto i mille euro.
Si concentrano nella logistica, ristorazione, turismo e assistenza alle persone.
E sotto 9 euro stanno il 38% dei giovani, il 16% degli over 35 anni, il 21% degli uomini e il 26% delle donne»

Cosa sta succedendo in questa fase di ripresa post pandemia? C’è una crescita dell’occupazione, ma anche del lavoro a tempo determinato e una frammentazione ulteriore delle forme di lavoro, dal part time a forme precarie come tirocini extra-curriculari, e lavoro intermittente. Nel 2021, quando il Pil è cresciuto del 6,5%, su oltre 1 milione di nuovi rapporti di lavoro ne abbiamo avuti meno di 200mila a tempo indeterminato, circa 600mila a tempo determinato, e 200mila in altre forme quali apprendistato e somministrazione. Ha contributo a questo anche la sospensione del decreto Dignità, che limitava il lavoro a termine. Aveva un senso sospenderlo nel 2020, ma oggi andrebbe riattivato. In questo contesto, la crescita del Pil c’è, ma senza sviluppo economico ed umano, e aumentano le disuguaglianze. La lotta alle disuguaglianze al contrario, nel solco dei valori e della dignità del lavoro di cui ha parlato il Presidente Mattarella, fa crescere il Paese e porta benessere diffuso, strutturale. Già prima della pandemia, comunque, la disuguaglianza salariale era quasi raddoppiata: tra il 1985 e il 2018 la varianza (scostamento dalla media, ndr) è passata da 0,24 a 0,44.

Lei è a favore del salario minimo. Come andrebbe regolato? E come evitare la proliferazione di contratti al ribasso? Credo sia arrivato il momento di prendere decisioni concrete e il prima possibile, data la situazione di difficoltà spinta dalla pandemia e ora ulteriormente dall’inflazione, che richiede anche un importante sforzo di sterilizzazione degli aumenti dell’energia. Non si possono attendere ancora a lungo il salario minimo e la legge sulla rappresentanza sindacale, che non sono soluzioni alternative, ma complementari. La contrattazione collettiva nel nostro Paese ha portato aumenti salariali ma in molti settori ha smesso di svolgere questo ruolo 30 anni fa, a causa della frammentazione del mercato del lavoro, della scarsa rappresentatività sindacale nei settori nuovi e della aziendalizzazione dei contratti, che hanno generato contratti pirata e ribassi salariali. Oggi abbiamo circa 985 Ccnl registrati, di cui oltre tre quarti di dubbia rappresentatività ma, in assenza di una legge, perfettamente legittimi. Da una parte quindi una legge sulla rappresentanza evita la proliferazione, attraverso l’individuazione di contratti leader. Dall’altra un minimo legale, che facendo riferimento alle indicazioni Ue potrebbe essere intorno ai 9 euro lordi l’ora, fissa una soglia sotto la quale non si può scendere. Serve un approccio combinato di queste due misure.

Perché secondo lei i sindacati frenano sul salario minimo? Ritengono, in buona fede, che spiazzerebbe la contrattazione. È successo anche in Germania dove però poi i sindacati si sono ricreduti, perché l’approccio regolativo combinato, contrattazione collettiva e salario minimo, funziona benissimo. Va osservato che i bassi salari oggi stanno anche nel perimetro dei Contratti nazionali rappresentativi. La soglia minima di salario sosterrebbe anche la contrattazione collettiva. E poi i salari bassi interessano soprattutto settori, come turismo, logistica e cura delle persona, poco esposti alla concorrenza internazionale. Non ci sarebbe una difficoltà competitiva per le aziende. Mentre nel manifatturiero, che è più esposto, abbiamo prevalentemente buoni salari.

C’è chi propone un sussidio per integrare i redditi più bassi. Il cosiddetto in-work benefit potrebbe essere una soluzione solo se applicato in modo selettivo. Ma bisognerebbe essere molto vigili, con rigorosi controlli, perché altrimenti si va a finanziare il costo dello sfruttamento. In altre parole, c’è il pericolo di un effetto perverso, come è già accaduto per altre misure che avevano giuste finalità. Cito un esempio empirico: i finanziamenti per il bonus asilo nido in molti casi sono andati a incrementare i prezzi delle rette, finanziando le aziende più che le famiglie.

Il presidente dell’Inps: «Occupazione sempre più frammentata e scarsa produttività: così
dagli anni ’90 gli stipendi si sono ridotti del 2%. E la competizione al ribasso ha disincentivato gli investimenti innovativi»


La frenata dei salari che conseguenze ha sulla stabilità del sistema pensionistico? Ha un notevole impatto sulle pensioni future, perché siamo nel sistema contributivo. Al netto di correzioni da parte dello Stato, gli assegni non potranno che essere bassi. E se lo Stato dovrà finanziare in futuro incrementi di pensioni al minimo, vuol dire che oggi di fatto sta sostenendo i bassi salari. Contribuiscono poco alle future pensioni anche i lavori precari, intermittenti, part time ed è troppo basso anche il tasso di occupazione della popolazione italiana, il 59%. Dopo tante riforme del mercato del lavoro fa specie avere solo 23 milioni di lavoratori su una popolazione di 60. Vuol dire che quelle riforme non hanno centrato l’obiettivo. Certo, abbiamo anche circa 3,5 milioni di lavoratori irregolari o a nero, ma questo non è un attenuante ma un aggravante, perché le pensioni si reggono sulla contribuzione, e nel caso del lavoro nero quella contribuzione manca.

C’è chi lancia l’allarme sulla spesa pubblica per l’assistenza. I conti non tornano? È un dato di fatto che in questi anni sia aumentata la spesa assistenziale e non la spesa pensionistica. Questa è avvenuto per due fattori. Il primo è che le disuguaglianze sono aumentate e il secondo è che l’Italia è arrivata tardi al varo di prestazioni, come il reddito minimo o l’assegno unico per i figli, che servivano a completare il nostro sistema di welfare. Questo aumento pone allo Stato un problema dal punto di vista della fiscalità generale, non dei contributi. È con le tasse che abbiamo pagato ad esempio i 55 miliardi di prestazioni di sostegno ai redditi e alle famiglie in emergenza Covid. Se non l’avessimo fatto sarebbero raddoppiate le disuguaglianze e la povertà. Ce lo possiamo permettere?