Esuberi. Telecomunicazioni: a rischio migliaia di posti di lavoro
Il settore delle telecomunicazioni in Italia è caduto in un baratro dal quale potrebbe non uscire più. A rischio ci sono migliaia di posti di lavoro, 5mila tra esuberi e prepensionamenti sono già calendarizzati nel 2023, ma soprattutto l’infrastrutturazione del Paese che procede a macchia di leopardo. «Siamo di fronte ad un modello di sviluppo sbagliato: il settore da dieci anni brucia un miliardo di ricavi all’anno, non garantisce la certezza del rientro degli investimenti che infatti sono calati drasticamente» dice Riccardo Saccone, segretario nazionale di Slc-Cgil e responsabile dell’area Tlc ed emittenza. Dal 2012 ad oggi è aumentato del 1000% il traffico voce e dati ma il fatturato del settore si è ridotto di un terzo, passando da 42 a 28 miliardi.
«Possiamo continuare a dire che è colpa della pandemia, della guerra e dell’inflazione ma se guardiamo al resto d’Europa, vediamo che altrove, nonostante le privatizzazioni, lo Stato ha mantenuto un ruolo guida». In Italia invece dall’anno della privatizzazione di Telecom, nell’ormai lontano 1997, le Tlc sono state considerate solo come un libero mercato, incentrato sulla competizione dei prezzi. Le tariffe telefoniche sono tra le più basse d’Europa, solo nell’ultimo anno sono calate del 36%. Un vantaggio per i cittadini ma anche un’arma a doppio taglio. «Il risultato è che le aziende per stare sul mercato a prezzi così bassi non hanno ricavi e non fanno investimenti. Il digital divide non è stato superato, anzi si è acuito - sottolinea Saccone -. Nelle aree interne del paese, dove vive il 45% della popolazione, non arriva. La pandemia ci ha fatto capire come la connettività sia un diritto da garantire a tutti».
Nei primi mesi dell’anno i sindacati hanno assistito da spettatori ad una serie di annunci di tagli al personale, unico grande costo sul quale si può ancora intervenire. Gli ultimi sono arrivati pochi giorni fa. Il colosso Ericsson ha annunciato un piano di ristrutturazione mondiale che prevede una sforbiciata di 8mila dipendenti su 102mila, di cui 150 in Italia. Dai contorni più sfumati al momento la riorganizzazione del business di British Telecom per far quadrare i bilanci. In Italia dà lavoro a 1200 persone ma non si hanno stime su eventuali tagli. Più grave la situazione dei grandi colossi. Vodafone ha comunicato ai sindacati una nuova cura dimagrante con mille esuberi, circa il 20% della forza lavoro. Più complessa l’operazione a cui punta WindTre: sta pensando ad una separazione della rete che verrebbe ceduta al fondo svedese di private equity Eqt insieme a 2mila dei 6500 lavoratori. In Tim prosegue il progetto di ridimensionato che punta a portare nel 2030 i 42mila dipendenti a quota 30mila a colpi di massicci piani di prepensionamento. L’anno scorso sono state avviate alla pensione 3400 persone, nel 2023 saranno altre 2mila.
«Se non ci sarà un cambio di passo rischiamo di avere ben 20mila posti di lavoro in meno nei prossimi anni - spiega Saccone -. La separazione della rete dai servizi di Tim è secondo noi la scelta sbagliata, una scelta miope che porterà l’Italia a perdere qualsiasi ruolo nel campo delle Tlc. L’ex monopolista deve avere un ruolo diverso come quello che oggi hanno Orange in Francia e Deutsche Telekom in Germania». Se Tim si trasformerà in una società di servizi non potrà comunque reggere la competizione con altre realtà più snelle e meno gravate da debiti come Iliad, avverte il sindacalista.Un rischio ancora più grave è che i fondi destinati alla transizione digitale previsti dal Pnrr non vengano utilizzati per portare la fibra in tutto il Paese e potenziare la rete 5G ma si concentrino nelle zone più appetibili, le grandi città come Milano e Roma oggi già super-cablate. «Il mercato da solo non basta per tenere coeso il Paese - conclude Saccone -. Negli anni ’60 per elettrificare il Paese e portare l’energia elettrica ovunque fu creata l’Enel. Adesso serve un’operazione simile, non c’è più tempo da perdere».