Inchiesta. Il nuovo business mondiale della marijuana. Chi specula vuole liberalizzare
Il nuovo business mondiale della marijuana
Nei decenni in cui a portarla avanti erano movimenti della cosiddetta controcultura e partiti libertari dal consenso limitato, la campagna per la liberalizzazione della cannabis ha ottenuto dovunque risultati modesti. Da quando a spingere per la marijuana libera sono invece fondi speculativi e grandi gruppi industriali, l’efficacia della pressione liberalizzatrice è aumentata spaventosamente. È la storia dell’ultimo decennio, quello che ha visto un’ampia diffusione a livello mondiale della cannabis per usi terapeutici e l’inizio dell’espansione della marijuana “ricreativa”. Tra il 2012 e il 2018 il consumo di cannabis per svago è stato liberalizzato in nove Stati degli Usa, compresa la ricca e popolosa California, mentre mercoledì prossimo il Canada sarà la prima nazione del G7 a legalizzare la marijuana ricreativa sia a livello federale che di singole province. Senza andare tanto lontano, in Italia la cannabis “light” è in commercio dal 2017 e il Movimento Cinque Stelle, cioè il partito che ha preso più voti alle ultime elezioni, è tra i maggiori sostenitori politici della liberalizzazione della marijuana.
L’ARRIVO DEI FONDI C’è la forza di miliardi e miliardi di dollari di investimenti dietro questa pressione liberalizzatrice. Come quelli del fondo Privateer Holding, fondato nel 2010 a Seattle da tre imprenditori che venivano dal mondo delle banche d’affari e del venture capital. L’obiettivo dichiarato del fondo è «guidare, legittimare e definire il futuro della cannabis» partendo da tre presupposti: «La cannabis è un prodotto di massa; la fine del divieto della cannabis è inevitabile e i brand determineranno il futuro del settore». I tre hanno investito i primi 5 milioni di dollari per partire, poi ne hanno raccolti altri 7 nel 2013. Nel 2015 hanno fatto il colpo grosso: su Privateer ha investito 75 milioni di dollari il miliardario tedesco Peter Thiel. Thiel è l’uomo che ha fondato PayPal, la prima azienda dei pagamenti online, e l’ha venduta a eBay per 1,5 miliardi nel 2002. Quindi ha creato un suo fondo che ha concluso diversi ottimi affari, come l’acquisto del 10% di Facebook per mezzo milione di dollari nel 2004 e la vendita dello stesso pacchetto, nel 2012, per un miliardo. Sostenitore di diverse cause libertarie, comprese quelle per i diritti per le persone Lgbt (lui stesso si è sposato a Vienna nel 2017 con il compagno Matt Danzeisen), Thiel ha trovato nella marijuana una nuova miniera d’oro.
LE BORSE STORDITE Privateer ha lanciato infatti Tilray, società canadese incorporata nel Delaware e controllata attraverso una holding olandese. È una società “verticale”: coltiva, lavora e distribuisce cannabis, per adesso sotto forma di prodotti farmaceutici ma con l’obiettivo di allargarsi al cosiddetto mercato consumer. Ha 330 dipendenti tra Europa e Nordamerica, di cui 224 ricercatori, 50 addetti al marketing e anche ex poliziotti. Quest’anno, a luglio, si è quotata a Wall Street sul Nasdaq, il listino dei titoli tecnologici: è stata la prima azienda della cannabis a entrare nella Borsa americana. I suoi primi mesi sono stati più che avventurosi: partita da una quotazione di 17 dollari ad azione, già dopo il primo giorno di scambi era salita a 24 dollari. Era solo l’inizio: a fine agosto era salita a 50 dollari, a settembre ha superato i 100 ed ha toccato il record di 214 dollari ad azione quando ha comunicato di avere ottenuto il permesso per esportare marijuana negli Usa a scopo di ricerca. Oggi l’azione di Tilray vale 130 dollari, il che si traduce in una capitalizzazione totale di 12,3 miliardi. Il 76% di azioni appartiene a Privateer, un pacchetto che a questi prezzi vale circa 9,2 miliardi. Una valutazione assurda, considerando che parliamo di una startup in forte crescita, ma comunque ancora piccola: nel 2016 ha fatturato 12,6 milioni di dollari, saliti a 20,5 milioni nel 2017 e destinati quasi a raddoppiare quest’anno, ancora non c’è stato nemmeno un dollaro di utile. Ma la cannabis è diventata l’investimento prediletto della finanza più spregiudicata. Le startup che lavorano sulla marijuana in California hanno raccolto quest’anno più di un miliardo di dollari, il doppio rispetto al 2017. Sono spuntati diversi fondi Etf che investono solo su aziende del settore. Il più grande, Life Sciences, in un anno ha più che raddoppiato il suo valore. In Canada le aziende quotate sono più di un centinaio e la capitalizzazione totale delle cinque maggiori società della cannabis – oltre a Tilray ci sono Canopy Growth, Aurora, Aphria, Cronos e Hexo – è salita in un anno da 4 a 40 miliardi di dollari. È un +900%. Percentuali simili ricordano la recente febbre dei bitcoin, saliti nel 2017 da 2mila a quasi 20mila dollari e poi precipitati a quota 6mila.
UN MERCATO DA 500 MILIARDI Davanti a certi picchi di Borsa il rischio bolla è enorme, ma la marijuana è un’altra cosa rispetto ai bitcoin. Le criptovalute erano un’entità virtuale dal valore arbitrario, senza nessun collegamento con l’economia reale. Per una droga come la cannabis invece il mercato è reale ed esiste da secoli. I grandi speculatori della cannabis hanno bisogno solo che i governi li liberino da quel grosso impiccio che è il divieto di vendere e consumare marijuana. Stanno spendendo milioni di dollari in attività di lobbying. Vivien Azer, analista di Cowen, società di investimenti alternativi che ha accompagnano Tilray verso la quotazione, ha spiegato che dal punto di vista economico la liberalizzazione canadese della marijuana non è altro che la trasformazione di un mercato dal giro di affari stimato in 7 miliardi di dollari dallo status di illegalità a quello di legalità. Non capita spesso che un intero settore entri in blocco nel sistema dell’economia legale. «La nostra visione più ampia – ha spiegato Azer – va oltre l’uso da parte degli adulti in Canada. Crediamo piuttosto che questo sia il primo passo verso l’istituzione della cannabis come un ingrediente chiave per diverse categorie di consumo in quattro ambiti: uso ricreativo, impieghi nella cosmetica e nella nutraceutica, farmaci da banco contro il dolore e l’insonnia, prodotti farmaceutici ». Nel documento con il quale si è presentata a Wall Street, Tilray ha citato i numeri dell’Onu, che parlano di un giro d’affari globale per la cannabis ricreativa di 150 miliardi di dollari, con oltre 180 milioni di consumatori.
DROGA PER TUTTI La speranza dei grandi fondi della cannabis è che spingendo la liberalizzazione in tutto l’Occidente la marijuana possa sedurre sempre più persone. Negli Stati Uniti, ha stimato la società di ricerca Bds Analytics, oggi la cannabis genera ricavi per 9,2 miliardi di dollari, che diventeranno 23,4 già nel 2022 e 57 nel 2027, con l’uso per svago che varrebbe da solo 38,3 miliardi. L’analista Azer non esita a parlare di un potenziale mercato mondiale da 500 miliardi di dollari e prevede che già nel 2030 il mercato della marijuana ricreativa in America supererà quello delle bibite gassate e insedierà quello di birre e liquori: «La cannabis e l’alcol – argomenta – sono lubrificanti sociali interscambiabili». Ecco l’idea: proporre alla gente la marijuana da fumare ma anche da bere o da mangiare come fosse uno svago per adulti qualunque, come la birra in compagnia o il cocktail all’aperitivo. Sarebbe poco credibile se anche enormi gruppi industriali non ci stessero lavorando. Constellations Brand, conglomerato di marchi dell’alcol compresa la celebre birra Corona, lo scorso agosto ha investito 4 miliardi di dollari per conquistare il 38% di Canopy Growth, altra azienda della cannabis canadese nonché principale rivale di Tilray. L’obiettivo di questo investimento, ha spiegato il ceo Rober Sands, è «capitalizzare in quello che assolutamente senza dubbio sarà un enorme mercato nei prossimi dieci anni, da centinaia di miliardi di dollari ». Non è l’unico a crederci. Il marchio californiano di birre Lagunitas, che fa parte del gruppo Heineken, ha lanciato a giugno un infuso frizzante alla cannabis, mentre anche Coca Cola studia una bevanda a base del principio attivo della marijuana. Anche le aziende del tabacco, inevitabilmente, ci stanno guardando dentro. Qualche giorno fa Altria, il gruppo che controlla Marlboro e Philip Morris, si sarebbe fatta avanti per entrare in una delle grandi società della marijuana canadese. La tesi generale è che sia tutto un processo inesorabile: a forza di investirci miliardi l’industria della cannabis riuscirà a scardinare le resistenze dei governi e otterrà la liberalizzazione dei grandi mercati. A quel punto la marijuana sarà diffusa un po’ dovunque, la sua immagine sarà “ripulita” e resa amichevole, centinaia di milioni di persone diventeranno consumatori abituali della droga e chi ci ha investito moltiplicherà i suoi guadagni. Un futuro distopico che la potenza dei miliardi rischia di trasformare in realtà.