Riduzione d'orario. Settimana di lavoro di 4 giorni, rivoluzione dell'altro mondo
La riduzione dell'orario di lavoro al centro della riflessione
L'idea della riduzione dell’orario di lavoro viene da lontano. Nel tempo, fin dall’inizio del secolo scorso. E ora anche nello spazio, dopo che ai tradizionali laboratori del Nord Europa si è aggiunta la Nuova Zelanda, Paese in cui il gruppo Unilever ha deciso nei giorni scorsi di sperimentare un’organizzazione del lavoro di 32 ore distribuite su 4 giorni per i suoi 81 dipendenti. In pratica: 8 ore di lavoro dal lunedì al giovedì, senza alcuna penalizzazione dello stipendio rispetto alla situazione precedente. Un regime che verrà testato per un anno dalla multinazionale dei prodotti alimentari e potrebbe essere esteso ai 155mila dipendenti del gruppo.
La Nuova Zelanda si sta in effetti caratterizzando come la frontiera all’altro capo del mondo in cui sta maturando una concezione diversa del lavoro moderno rispetto a quella che ha caratterizzato tradizionalmente le società occidentali. Il tema della riduzione dell’orario di lavoro, infatti, è stato anche al centro del dibattito politico nel Paese australe per iniziativa della premier Jacinda Ardern, che ha auspicato un diverso bilanciamento tra vita professionale e cura familiare, sottolineando come i benefici dell’operazione, in termini di maggiore produttività e soddisfazione da parte dei lavoratori, compenserebbero l’incremento dei costi orari. Concetti che Andrew Barnes e Charlotte Lockhart proprietari del gruppo finanziario, sempre neozelandese, Perpetual Guardian hanno sperimentato e “toccato con mano” già a partire dal 2018. Tanto da decidere non solo di applicare la settimana di lavoro di soli 4 giorni per tutti i propri 240 dipendenti, ma, come “folgorati sulla via di Damasco”, diventare i primi e più convinti profeti della settimana cortissima. Barnes & Lockhart hanno così dato vita a una fondazione non profit, la “4 day week”, che ha iniziato a influenzare le scelte di altre aziende, fino a determinare la decisione di Nick Bangs, direttore generale della sede di Auckland della Unilever, appunto.
In precedenza, era stata la premier finlandese, Sanna Marin, a gettare il cuore oltre l’ostacolo parlando, già un anno fa e poi ancora la scorsa estate, della possibilità di ridurre l’orario di lavoro a 6 ore giornaliere pagate come 8, facendo leva sugli incrementi di produttività da redistribuire anche a salario e sui benefici delle minori assenze per malattia e impegni di cura. È interessante notare qui come questo tema del migliore bilanciamento tra tempo di lavoro e tempo libero per sé stessi e per la cura accomuni due figure emergenti della politica al femminile – Arden e Marin – e abbia fatto da sfondo pure ad alcuni accordi sindacali stretti dalla potente IG Metall in Germania all’inizio del 2018. Lo stesso sindacato che oggi chiede di spingere ulteriormente sulla riduzione d’orario per rispondere alla grande trasformazione che l’industria, in particolare quella dell’auto, sta subendo. Ancora, a livello governativo ne ha parlato il premier spagnolo Pedro Sanchez, mentre in Gran Bretagna alcuni centri di ricerca hanno suggerito di far calare a 32 ore la settimana di lavoro nel settore pubblico.
Proprio questa rapidissima rassegna, però, pone in risalto la novità rappresentata dalla scelta di Unilever ora e di Perpetual Guardian prima, quella di una riduzione d’orario progettata e promossa dalle stesse aziende. Tradizionalmente, infatti, il tema della riduzione d’orario si è sviluppato su impulso del movimento sindacale per migliorare la condizione dei lavoratori. Nella seconda metà del Novecento, poi, si fa strada il filone di pensiero che individua nell’organizzazione degli orari lo strumento per incrementare l’occupazione tramite la ripartizione del lavoro tra più soggetti. È l’ideale sintetizzato nello slogan “Lavorare meno, lavorare tutti” che ha dimostrato di funzionare in maniera assai efficace in chiave difensiva, per tutelare i posti di lavoro in momenti di crisi, con “armi” come la cassa integrazione o i contratti di solidarietà. Ma che finora, quando si è tentato di trasformarla in una politica generale di strategia espansiva, si è rivelata più che altro un’utopia, se misurata sull’incremento netto di occupazione. Come ha dimostrato il caso delle assai contestate 35 ore, introdotte in Francia a fine anni ‘90, che non hanno prodotto i risultati sperati e su cui Oltralpe si è poi proceduto a parziali marce indietro.
La ricetta della riduzione d’orario, insomma, non sembra determinare le conseguenze sperate quando viene calata dall’alto per legge, mentre si rivela feconda quando nasce dalla volontà di impostare una diversa organizzazione aziendale o se viene stimolata dal basso attraverso la contrattazione decentrata. Un esempio recente, in questo senso, è quello dell’ultima intesa aziendale firmata alla Luxottica nel giugno del 2019. Il gruppo dell’occhialeria, infatti, è riuscito tramite una riduzione e diversa modulazione degli orari di lavoro a cogliere insieme tre obiettivi fondamentali: migliorare la produttività, aumentare la paga oraria e soprattutto stabilizzare 1.150 lavoratori a termine. Più piccola nelle dimensioni, ma altrettanto interessante per l’approccio al tema, è il caso dell’azienda trentina di servizi informatici Zupit, che ha scelto di dare importanza al tempo delle persone non solo nella sfera lavorativa e dunque limitare per tutti l’orario di lavoro a 30 ore settimanali, senza straordinari.
Assieme alla leva economica della produttività (per inciso, il vero punto debole dell’Italia, che nell’ultimo decennio l’ha vista crescere solo dello 0,3% medio e addirittura calare di altrettanto nel 2018) la questione chiave è rappresentata infatti proprio dal tempo delle persone. Una risorsa finita che non si può impiegare solo in una direzione, quella lavorativa. Gli esseri umani non sono unidimensionali, anzi. Sono il centro e insieme il prodotto di un tessuto di relazioni che, se reciso o limitato, determina un impoverimento delle capacità stesse della persona, in termini di creatività, motivazione, intelligenza, fino a rendere “non conveniente” in termini economici il suo apporto lavorativo. Tanto da far emergere questo nuovo trade-off, tra taglio dell’orario di lavoro e incremento della produttività, un equilibrio diverso oggi favorito anche dal progresso tecnologico, che può essere alla base di un diverso approccio delle aziende al tema.
La riduzione del tempo di lavoro e la sua “liberazione” per le persone sono da decenni al centro della riflessione anche nel mondo cattolico. Per restare agli ultimi esempi, se ne è discusso ampiamente nella 48esima Settimana sociale dei cattolici nel 2017 a Cagliari quale cambiamento necessario. E, appena il mese scorso, la questione è stata affrontata anche nell’iniziativa “Economy of Francesco”, attraverso contributi come quello della filosofa canadese Jennifer Nedelsky che propone il «part-time per tutti, perché tutti possano anche svolgere lavoro di cura» per i propri cari o per la comunità. Un approccio, questo, condiviso dallo stesso Papa che, nel suo libro appena edito da Piemme “Ritorniamo a sognare”, scrive: «Con lo stesso obiettivo (combinare le attività remunerative con il tempo riservato alla comunità), è forse giunto il momento di considerare una riduzione dell’orario di lavoro, con adeguamento dei salari, che paradossalmente potrebbe accrescere la produttività. Quello che porta a lavorare di meno per consentire a più persone di accedere al mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare; farlo è piuttosto urgente». Francesco considera in questo scritto anche l’opportunità di «esplorare concetti come la Retribuzione universale di base (...), una retribuzione fissa e incondizionata a tutti i cittadini», per liberare il tempo di lavoro. Ciò che conta di questo pensiero, però, non sono tanto i mezzi ipotizzati quanto il fine della rivoluzione prospettata.
Più che il come si fa la riduzione d’orario, su cui va esercitata la fantasia imprenditoriale e spesa la capacità contrattuale del sindacato, infatti, conta il perché si sceglie tale strada. E più ancora del per che cosa la si progetta – obiettivi di politica economica dagli esiti spesso non pianificabili a tavolino – è fondamentale il per chi la si decide: la persona nella sua concretezza e verità. Se si parte da qui, da questo bisogno reale dell’uomo di non essere solo un lavoratore, di poter intessere relazioni, di avere cura degli altri – e così arricchirsi e crescere – la strada del cambiamento, la sua convenienza per le stesse aziende, è più facile da individuare.