Il progetto. La scuola modulare e flessibile pensata per l'Africa
La scuola modulare progettata da Valentino Gareri
Una scuola modulare, flessibile, sostenibile, ispirata alle forme delle costruzioni “vernacolari”, fatta con materiali e tecniche locali, perfettamente in armonia con il contesto e dal budget ridottissimo. Quando il giovane architetto reggiano Valentino Gareri ha progettato questo edificio – che ha, tra le tante qualità, anche l’autosufficienza energetica - ha pensato all’Africa e alle tante difficoltà che ogni giorno la sua gente deve affrontare per fare anche le cose più semplici. Ha pensato, per esempio, ai tantissimi ragazzi che ogni giorno non possono frequentare la scuola perché mancano gli edifici. «Proprio così», spiega il professionista 34enne, una laurea in Architettura per la sostenibilità allo Iuav di Venezia e una solida esperienza maturata tra Sydney, dove ha deciso di aprire il suo atelier, e Brooklyn, dove lavora come Senior architect per il prestigiosissimo studio BIG - Bjarke Ingels Group.
«Quando ho letto che il 60% dei ragazzi dell’Africa sub sahariana dai quindici ai diciassette anni non va a scuola a causa (anche) della mancanza di edifici, mi sono chiesto: che cosa posso fare per loro, con i mezzi che ho a disposizione?», spiega, «e ho capito che un modo efficace per aiutarli è agevolarli nell’accesso alla cultura e all’istruzione. Per questo motivo la scuola che ho progettato è molto più di una “semplice” scuola: è una struttura modulare e flessibile che può diventare anche altro in modo da rispondere ai bisogni di tutta la comunità. Oltre alle aule per la didattica può ospitare workshops, alloggi per insegnanti o per visitatori, e anche centri medici». Quando racconta della sua carriera, e della sua vita, Valentino Gareri racconta anche una storia di viaggi. Di recupero del patrimonio esistente, di nuove – talvolta controverse - idee e di grande concretezza. I suoi primi lavori, focalizzati sulla riqualificazione (anche energetica e architettonica) di edifici popolari, gli hanno permesso di ottenere riconoscimenti importanti e di entrare nella bottega genovese di Renzo Piano; un anno più tardi, nel 2012, si è spostato a Bologna da uno dei più talentuosi allievi di Piano, Mario Cucinella, co-realizzando cinque interventi di ricostruzione di altrettanti edifici danneggiati dal sisma di quello stesso anno. Con questo progetto, chiamato “Cinque pillole di Bellezza”, lo studio di Cucinella si è aggiudicato lo European Sustainability Award. Poi è venuta Sydney, dove, con lo studio Bates Smart Architects, si è messo in gioco su scale completamente nuove, disegnando torri, grattacieli, edifici altissimi e complessi, «cose, insomma, che in Italia non avrei mai potuto fare».
Dopo ancora è arrivata New York e il progetto per Google a cui sta lavorando proprio in questi mesi nel grande open space minimalista di BIG.«Posso dire di disegnare sempre, ventiquattro ore al giorno, ma lo faccio perché mi piace, non perché devo. Quando non sono da BIG, infatti, lavoro per il mio atelier: studio, ricerco e progetto. Di recente, per esempio, mi sono concentrato in una proposta per la ricostruzione della cattedrale di Notre Dame (una copertura formata da cinque cupole di vetro, ciascuna delle quali caratterizzata da funzioni diverse: museo per le reliquie, parco, spazio per la musica e altro, nda), che ha suscitato critiche ma anche parecchi apprezzamenti ed è stato pubblicato in diverse riviste internazionali. «Sono convinto che l’architettura non debba limitarsi a proporre ciò che c’era prima ma spingersi oltre nella ricostruzione e trovare il coraggio di scoprire nuove funzioni. In questo periodo sto lavorando al progetto di un’altra scuola modulare multifunzionale per territori devastati da terremoti o da altre calamità naturali: l’obiettivo, in questo caso, è ricostruire il tessuto sociale e la vita di ogni giorno dopo il disastro. Penso all’Aquila, profondamente ferita dal sisma ma anche dal dopo sisma, con una ricostruzione completamente sbagliata» (lo stesso Piano l’ha definito «l’esempio perfetto di quanto non bisogna fare»). Si definisce un architetto eticamente responsabile, per cui un progetto non è mai fine a se stesso, ma dentro di sé ha, sempre, dell’altro: «Ogni volta mi domando: come posso fare, come posso agire, per contribuire a cambiare il mondo? Il mio modello di architettura, che è poi molto affine a quello dello studio per cui lavoro, deve avere sviluppi positivi, etici, deve migliorare la vita delle persone, il loro modo di relazionarsi e di vivere, deve valorizzare la loro storia, ma deve necessariamente essere anche “amica” del clima. Per questo, per me, l’architettura non è solo un lavoro o un divertimento ma è anche, e soprattutto, una missione».