Reportage. L'Ilva risanata ed efficiente, futuro obbligato di Taranto
L'Ilva vista dai tetti del quartiere Tamburi (Ansa). Si parlerà dell’occupazione in Ilva e di Taranto nel corso di un vertice convocato per il 6 agosto, alle 13, al Mise, dove si incontreranno sindacati metalmeccanici e Arcelor Mittal. È in sostanza il riavvio del tavolo negoziale sui posti di lavoro
Taranto non può più vivere con l’Ilva. Ma Taranto non può nemmeno vivere senza l’Ilva. Si gioca tutto intorno a questa apparente contraddizione il destino dell’acciaieria più grande d’Europa. Grande due volte la città, l’impianto siderurgico fiancheggia per chilometri la strada che porta a Taranto. Un 'mostro', che con una mano dà da vivere a 20mila persone e alle loro famiglie, tra dipendenti e indotto. E che con l’altra, da decenni, sparge fumi, polveri e veleni. La perizia epidemiologica della Procura nel 2012 certifica che «l’esposizione continuata agli inquinanti » emessi dal sito è causa di «fenomeni degenerativi » che provocano «eventi di malattia e di morte».
Lunedì a Roma il ministero del Lavoro ha riconvocato il tavolo delle parti. Cosa fare? Chiudere tutto e subito? Possibile, nella consapevolezza di un inevitabile esodo di decine di migliaia di famiglie, un colpo di grazia a una città in crisi. Lasciare tutto così? Altrettanto possibile, nella coscienza che l’impianto perde competitività (dai 10 milioni di tonnellate di acciaio del 2012 ai 6 del 2016, agli attuali 4,5) continuando ad inquinare. E allora la scelta obbligata, che dovrà mettere d’accordo schieramenti contrapposti, è quella di una 'nuova Ilva'. Un’industria competitiva, sicura per chi ci lavora e chi ci abita vicino. Utopie? No. Le tecnologie esistono, così come gli esempi di acciaierie conciliabili con un’economia sostenibile. A dirlo, con cognizione di causa, è chi a Taranto da anni si confronta col dilemma. Vale la pena di spendere il tempo necessario per cercarli e ascoltarli.
Come l’arcivescovo di Taranto, monsignor Filippo Santoro, presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e del lavoro. Un pastore dalla spiccata sensibilità sociale, costruita in 27 anni di missione fidei donum in Brasile, di cui 8 come vescovo ausiliare di Rio. Nel 2007 alla conferenza di Aparecida della chiesa latinoamericana è nel comitato del documento finale assieme all’arcivescovo di Buenos Aires, «un certo Bergoglio. Poi sono tornato in Italia: pensavo di riposarmi...», dice sorridendo. Santoro esordisce col precetto pasquale dentro l’Ilva, su invito della proprietà: «C’erano duemila operai e c’era Emilio Riva: 'Vi porto la mia solidarietà, ricordando i volti dei bambini malati di cancro visitati in ospedale'».
Nel 2013 la diocesi promuove un convegno sulle buone pratiche delle acciaierie di Duisburg in Germania o negli Usa. «L’Ilva così non può andare avanti – dice l’arcivescovo – e deve confrontarsi con l’innovazione tecnologica. Da anni la nostra posizione è quella di condividere il dramma delle persone, favorire il dialogo tra le parti, a volte sorde, spingere per l’innovazione tecnologica possibile, come la decarbonizzazione. La nostra è una posizione pastorale, per un’Ilva diversa, nell’ottica di una ecologia integrale». Un vero test per la Laudato si’: «L’enciclica, con la sua visone sorprendente, per noi è stata una manna». L’impegno per l’Ilva procede di pari passo con un piano pastorale articolato. C’è la valorizzazione della grande devozione popolare dei tarantini, la pastorale della carità con Palazzo Santacroce del ’700 ristrutturato con l’8 per mille, 60 posti letto per senza casa, l’ex convento delle carmelitane per accogliere i rifugiati. L’ottimismo della fede non cancella la preoccupazione dell’arcivescovo per il protrarsi di questa situazione di incertezza: «Ma Taranto in cuor suo non vuole la chiusura, se al referendum di consultazione è andato a votare meno del 20%».
Giuse Alemanno, 56 anni, tornitore all’Ilva dal 2000, è in pausa. «Oggi in acciaieria c’è confusione, smarrimento, solitudine. Ci sentiamo come nel 'Deserto dei tartari'. Ligi al nostro dovere, aspettando non si sa cosa e quanto. E si parla di esuberi come se fossimo numeri, non persone». Taranto può fare a meno dell’Ilva? «Così com’è deve essere superata. Non è più sostenibile dal punto di vista economico, ambientale, sanitario. Ci sono esempi positivi: Pittsburg, Bilbao, Lintz. L’Ilva ha saltato quella fase storica, il gruppo Riva, quando l’ha acquisita dall’Iri, non ha fatto nessuna innovazione. Cosa che mi aspettavo dal commissariamento nel 2012. Oggi la fabbrica è meno sicura di prima». A chi dice che l’Ilva va chiusa e che Taranto può riconvertirsi in altri settori, come il turismo, Giuse risponde secco: «Di favole ne ho ascoltate tante, ma alla mia età ho smesso di crederci da un pezzo». A Taranto in tanti hanno creduto però alle promesse del Movimento 5 stelle che alle politiche ha raccolto il 45%: «Una fiducia che comincia a scricchiolare».
Valerio D’Alò, segretario Fim Cisl di Taranto, in Ilva ha lavorato per anni: «Ho fatto anch’io la mia cassa integrazione, col Cud che si riduce e le spese che restano». Ora è impegnato dalla crisi di Laicata, 200 posti in una delle ditte che faceva manutenzione agli impianti Ilva. «La mancata manutenzione crea problemi. Gli operai sono preoccupati. Sei anni di amministrazione straordinaria sono troppi, gli impianti si stanno deteriorando. Mancano perfino i dispositivi personali di protezione. E registriamo un’impennata negli infortuni su lavoro». È ipotizzabile chiudere l’Ilva e ricollocare 20mila lavoratori? «Non ci si è riusciti coi 69 addetti al fotovoltaico della Marcegaglia: Taranto e provincia conta già 110mila disoccupati». Impossibile anche fermare gli impianti per bonificare l’Ilva: «A rinnovarla può essere solo chi ha interesse a farlo per ottenere utili». Ma si può fare: «A Gent, in Belgio, ho visto l’impianto Arcelor Mittal che grazie a cappe aspiranti azzerra lo slopping, le fumate rosse da fusione». Insomma, «la siderurgia a impatto zero non esiste, ma si può produrre nei limiti di legge. E allora il governo abbandoni gli slogan elettorali, è il momento della responsabilità di governare».
Risanare si può. Così come si possono eliminare i polveroni di minerale spinti dal vento su Tamburi, quartiere popolare nato accanto all’area dove poi è sorta l’Ilva. Sono i campi minerari, depositi a cielo aperto di minerale ferroso per gli altoforni. Inutili le colline artificiali antivento, inutili le reti da venti metri da campo sportivo. Servono i capannoni, di cui si cominciano a vedere i pilastri. Qui quando tira vento le strade si coprono di una polvere brillante, che una volta i bambini chiamavano «polvere di stelle ». E con le fumate rosse della fusione tutto cambia colore. Ma chi vive qui è condannato a restarci e a respirare fumi e veleni: «Ha visto quella casa in vendita?», dice Giannicola, gelataio ambulante. «Quattro vani, servizi e termo autonomo: 25mila euro. Ma manco a 20mila la vendono».
A intentare la prima causa civile per conto di un condominio di Tamburi contro il gruppo Riva nel 2005 è l’avvocato Massimo Moretti. Dieci anni di battaglie e verrà riconosciuto il «ridotto godimento dell’immobile», con un risarcimento per i proprietari del 20% del valore delle case. Peccato che l’amministrazione straordinaria metterà i condòmini in fondo alla fila dei creditori, ben dopo banche e fornitori. Moretti, legale di fiducia di Legambiente a Taranto, ora sta cercando di far riconoscere dal Tribunale di Milano un altro danno: quello di immagine della città. «L’ha provocato inevitabilmente l’eco mediatica dei veleni e dei tumori. Un altro ostacolo alla diversificazione imprenditoriale». Sarà dura convincere di nuovo i turisti a fare le vacanze nella città dell’Ilva: «Eppure abbiamo angoli di mare belli come in Sardegna. Le potenzialità ci sono. Salvaguardare l’ambiente è importante quanto la tutela dei posti». L’Ilva e la Citta dei due mari possono rinascere. Debbono rinascere.