Economia

L'ospite. Salario minimo? Meglio un sistema comune di sostegno al reddito

Paolo Reboani, presidente e ad di Italia Lavoro mercoledì 16 gennaio 2013
​Hanno destato molto interesse le dichiarazioni rese al Parlamento Europeo dal Presidente dell’Eurogruppo, il primo ministro lussemburghese Juncker, riguardo la dimensione sociale della crisi e la sottovalutazione della disoccupazione da parte dei governi europei. Viene spontaneo domandarsi quali indicatori guardava il Presidente dei Ministri economici dell’UE degli ultimi sette anni, mentre i Ministri europei del Lavoro chiedevano di porre la promozione dell’occupazione al centro del dibattito sulle politiche economiche europee. Ma lasciamo stare. Le dichiarazioni di Juncker, però, possono finalmente aprire anche nelle istituzioni europee una discussione più generale sulla opportunità di un cambio di passo, da molti auspicato, nelle politiche per la crescita e la creazione di occupazione. La mia attenzione, tuttavia, intende soffermarsi su due temi evocati in quelle dichiarazioni: il salario minimo e le politiche per il lavoro. Ipotizzare un salario minimo legale nei Paesi dell’UE è un falso problema. Infatti, oggi circa 20 dei 27 Paesi già lo hanno e negli altri – come in Italia – vige il sistema contrattuale che fissa dei minimi salariali, a volte anche più garantisti. Pensare che tutti i Paesi lo istituiscano significa negare le caratteristiche istituzionali di ogni mercato del lavoro; significa rendere marginale la contrattazione e il ruolo delle parti sociali, significa fissare arbitrariamente dei livelli di remunerazione che possono essere slegati dalla realtà produttiva. Diverso è se per salario minimo si deve intendere un salario sociale, non legato all’attività lavorativa ma che sia una forma di assistenza sociale contro la povertà. Si tratta allora di reddito minimo. In Europa solo in Italia e in Grecia esso è assente secondo le analisi correnti. Ma è altrettanto vero che in Italia esso è surrogato da altre forme di assistenza sociale, forse improprie e meno efficienti. Non vi è dubbio che un welfare moderno dovrebbe prendere in considerazione forme di assistenza di ultima istanza ma le varianti sono molteplici e vanno ritagliate sulle caratteristiche di ogni Paese. E per l’Italia l’esperienza non è stata mai positiva.La dimensione sociale dell’Europa è oggi un cantiere ancora aperto. Neppure questa crisi ha permesso di affiancare finora alla politica monetaria e alle politiche di bilancio politiche del lavoro (e sociali) coordinate. Nondimeno, si apre ora uno spiraglio importante che Juncker ha giustamente ricordato. Infatti, il Consiglio Europeo ha inserito nel mandato del Presidente Van Rompuy per la costruzione di una Unione Economica Europea più vincolante, il principio della dimensione sociale. Il dibattito passa dunque dalla teoria alla pratica e anche il prossimo governo italiano dovrà avanzare una chiara idea di dimensione sociale e individuare gli strumenti per creare politiche del lavoro, attive e passive, maggiormente coordinate. In questo senso credo che vada condivisa la recente proposta del Commissario Andor per stabilizzatori automatici a livello europeo. L’idea più facile da cui partire è l’ipotesi di un sistema di sostegni al reddito che abbia una comune base europea e su cui poi gli Stati membri possano agire a completamento. Questa ipotesi avrebbe il vantaggio di coniugarsi alle politiche attive del lavoro – la parte più sviluppata a livello comunitario tra le politiche del lavoro – di utilizzare il Fondo Sociale Europeo in maniera più solidale, di riequilibrare tra aree a diverso sviluppo nell’Ue sulla base di un chiaro indicatore quale il livello di disoccupazione. E d’altra parte un significativo e positivo esperimento è stato condotto in questo senso in Italia con l’utilizzo del Fondo sociale europeo nelle politiche attive che hanno accompagnato l’utilizzo della cassa integrazione in deroga a partire dal 2008, salvaguardando diverse centinaia di migliaia di posti di lavoro, o meglio proteggendo il reddito di tutte queste famiglie e così la coesione sociale del Paese. È tempo di un nuovo paradigma economico e il prossimo governo italiano non potrà non tenerne conto se vuole essere vero protagonista della scena europea.