Economia

Il dibattito. Stipendi: la "giusta" differenza

Marco Morosini (Politecnico di Zurigo) giovedì 28 febbraio 2013
Qual è il massimo divario accettabile tra le retribuzioni più alte e più basse in un’azienda o in un Paese? Un rapporto di 40 a 1 tra amministratore delegato e dipendente, come a dire da un massimo di 40.000 a 1.000 euro al mese, suggerisce la Federazione delle Chiese protestanti della Svizzera nel suo documento «Salari troppo elevati: libertà o provocazione?». 40, ricorda il documento, era il divario salariale massimo fino agli anni ’80, quando la popolazione nutriva ancora fiducia nelle grandi aziende e i divari salariali non minacciavano la pace sociale. Oggi invece il divario salariale massimo in Svizzera è 1.260. Negli Usa il record è 1.740 (United Health, 2010), in Italia 1.500 (Unicredit, 2010). E così il tema delle differenze salariali – e più in generale su come restituire "equità" all’economia di mercato – è tornato ad animare il dibattito intellettuale e politico in particolare in Svizzera (dove si terrà un referendum sul tema) ma anche in Italia, da parte del Movimento 5 Stelle.Non in tutto il mondo, in effetti, le differenze sono così accentuate. In Giappone, ad esempio, nel 2008 il record del divario salariale era 37 (Nissan) seguito da differenze più modeste in aziende come Sony 30, Toyota 15, Sharp 13, Mitsubishi appena 11. E, perfino negli Usa, grandi aziende hanno successo anche con divari salariali di 13 (Microsoft e Dell) o 10 (Berkshire Hathaway, di Warren Buffett). Lo stesso vale per l’Italia, dove nel 2010 a fronte di divari salariali di 230 (Pirelli) o 130 (Mediaset, Generali, Fiat), aziende di successo, per esempio Eataly, praticano un divario salariale non superiore a 5:1. La grande crescita del divario salariale è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno più generale degli ultimi 30 anni: il rapido aumento della quota nel reddito nazionale delle più alte retribuzioni e dei redditi da capitale (profitti, interessi, affitti, contratti di concessione), rispetto alla proporzione dei redditi reali da lavoro medi e bassi, che in molti Paesi industriali stagnano o arretrano da decenni. Già nel 2001 il Fondo Monetario Internazionale metteva in guardia contro le conseguenze destabilizzanti del crescente divario dei redditi. L’allarme disuguaglianza è stato lanciato dall’OCSE con due studi: «Growing Unequal Income Distribution and Poverty in Oecd Countries» nel 2008, e «Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising» nel 2011.Un tetto massimo alle retribuzioni è avversato dai liberisti, che lo ritengono ingiusto e dannoso, mentre è propugnato dai critici del liberismo. Secondo Ulrich Thieleman, già professore di etica economica all’Università di San Gallo, dal 1980 il prodotto lordo mondiale è cresciuto di 6 volte, mentre il patrimonio finanziario si è moltiplicato per 18. Gli Stati si sono inoltre lanciati in una gara al ribasso nella tassazione del capitale per corteggiarlo e attirarlo a sé. Masse sempre più grandi di capitale vagano così per il mondo alla velocità dei supercomputer, destabilizzano il sistema finanziario. Secondo alcuni osservatori, la disuguaglianza economica crescente è la causa principale delle ultime crisi finanziarie. Da decenni, i più ricchi ricevono così tanti soldi, che non riescono a usarli tutti né per consumare, né per investirli in maggiore produzione di beni, che resterebbero invenduti per mancanza di domanda. I più ricchi – ma anche i piccoli risparmiatori mal consigliati – riversano così i loro capitali nella speculazione finanziaria, oppure prestano soldi, spesso senza saperlo, a centinaia di milioni di persone che lavorano, ma che per pagare le spese correnti devono indebitarsi, perché il salario non gli basta. Se però i redditi bassi non aumentano, i milioni di debitori meno abbienti non potranno aumentare i loro consumi, né potranno mai ripagare i debiti.Oltre che per centinaia di milioni di poveri, il crescente divario dei redditi è causa di malessere anche per quei meno abbienti che vivono ben sopra della soglia della povertà. La soddisfazione per la disponibilità di beni, infatti, dipende non solo dalla loro quantità assoluta, ma anche dalla loro quantità relativa, se comparati ai beni degli altri. Un grande divario di reddito può diminuire produttività e qualità, perché può indurre i lavoratori a impegnarsi meno di quanto farebbero se percepissero come equa la distribuzione del valore che creano. Di fronte alla miseria crescente di decine di milioni di persone nei Paesi più ricchi – qualunque ne sia la causa – molti ritengono immorale che lo Stato non la combatta aumentando il prelievo fiscale su quei redditi, la cui decurtazione non causerebbe percepibili perdite di benessere. Infine c’è chi ricorda che redditi finanziari esorbitanti inducono anche stili di vita esorbitanti per uso di energia, materiali, superficie. Ciò ha conseguenze ecologiche negative sia dirette, sia indirette: infatti i consumi materiali ostentati dalle classi superiori stimolano una spinta emulativa nelle classi inferiori, come notava l’economista Thorstein Veblen nel 1889 nel suo classico «The Theory of the Leisure Class».Forse però gli argomenti migliori a favore di una maggiore perequazione dei redditi li hanno forniti Kate Pickett e Richard G. Wilkinson nel libro «La misura dell’anima – Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici»: i Paesi con la distribuzione dei redditi più egalitaria sono ai primi posti in quasi tutti i principali indicatori economici, sociali, ecologici, di qualità della vita e di felicità.