Il fenomeno. Ruderi e case diroccate in Italia, perché sono in aumento
In dodici anni i ruderi e gli immobili fatiscenti sono aumentati del 123%: se nel 2011 erano “solo” 278mila, oggi superano quota 620mila. Una crescita netta di 342mila unità. La provincia di Frosinone è quella col numero più alto di case in rovina (categoria catastale F2): ce ne sono quasi 32mila, sei volte di più dei ruderi presenti nella vicina e ben più popolosa provincia di Roma. A fare i conti è Confedilizia che sottolinea come i dati - nei quali vengono contate tutte le case che hanno perso la loro capacità reddituale perché obsolete, diroccate, oppure con il tetto crollato, parzialmente demolite o con un alto stato di degrado - disegnano una "mappa del disagio economico, sociale e demografico" dell'Italia.
È vero che le 620 mila case fatiscenti presenti in Italia sono concentrate soprattutto nelle aree più rurali e marginali dell'Italia, ma stando ai dati raccolti da Confedilizia il problema riguarda anche le grandi città. A Roma nel 2011 c’erano 459 case diroccate, e non produttrici di reddito, oggi sono 1.820, il quadruplo. La Capitale su questa classifica negativa batte di quattro volte Milano, che ha visto un incremento basso passando in 12 anni da 280 a 366 immobili fatiscenti. Crescita significativa anche a Napoli, passata in dodici anni da 225 a 707 immobili fatiscenti, quota comunque inferiore rispetto a Palermo che ne conta 3.810.
Al di là dai grandi capoluoghi, se a guidare la classifica è la provincia di Frosinone, nel Cosentino e nel Messinese si contano rispettivamente 22.974 e 18.537 case diroccate. Sono moltissime se si fa il confronto con la provincia di Milano, molto più popolosa, che ne registra solo 1.764. Dietro le province di Frosinone, Cosenza e Messina, si trovano Torino, Cuneo, Foggia, Reggio Calabria, Lecce e Benevento, dove ruderi e immobili fatiscenti sono, in ognuna di esse, tra i 14mila e i 16mila: allo stesso modo, sia nelle aree del Mezzogiorno, sia nel Nord del Piemonte sono state le zone montuose ad aver sofferto il maggiore declino economico e demografico.
L’elemento più significativo resta la crescita nel tempo di questi immobili. Il confronto è stato fatto con il 2011, ovvero prima dell'introduzione dell’Imu, imposta che ha inciso, secondo Confedilizia, nell’innalzamento di questi dati. Da un lato le condizioni di fatiscenza sono ovviamente legate al trascorrere del tempo, ma in molti altri casi sono la conseguenza di atti concreti apportati dai proprietari sull’edificio (ad esempio, la rimozione del tetto) per evitare almeno il pagamento dell’Imu. Se le abitazioni, cioè gli immobili di categoria A, tra il 2011 e il 2023 sono aumentate solo del 6,5%, da 33 milioni e 429mila a 35 milioni e 593mila, nel caso dei ruderi l’incremento è stato, come detto, del 123%: dodici anni fa, infatti, erano solo 278.121. E il loro numero è salito soprattutto in alcune province in cui nel 2011 tali immobili erano ancora pochissimi, come Ferrara, dove sono aumentati del 361,7%. Altri forti incrementi hanno riguardato le province di Agrigento, Avellino, Foggia e Mantova: in tutti questi casi c’è stata quasi una quadruplicazione del numero. Sopra la media gli aumenti anche nella Città metropolitana di Napoli, +199,5% e in quella di Roma, +185,2%, a conferma del fatto che ruderi e case diroccate da sempre più diffuse nelle aree rurali, di recente hanno cominciato a vedersi maggiormente anche nelle metropoli.
Secondo quanto riportato da Confedilizia, la grandissima maggioranza dei ruderi, l’88,7%, appartiene a persone fisiche: «Si tratta quasi solo di case, magari appartenute a genitori o nonni e che poi sono passate a eredi ormai trasferitisi altrove». Questa situazione caratterizza un numero crescente di altre abitazioni che sono a rischio di totale abbandono, spesso già inagibili e inabitabili, ma ancora non categorizzate come unità collabenti al catasto, e su cui, quindi, si paga l'Imu a differenza di quelle collabenti che, al contrario, sono esentati dal pagamento dell’imposta. Per questo la confederazione immobiliare propone due alternative al governo: esentare dall’Imu i piccoli comuni sotto i 3mila abitanti interessati dal fenomeno, che costerebbe alle Casse dello Stato 800 milioni di euro, oppure almeno di applicare un'esenzione totale - ora è solo al 50% - per questa tipologia di case, che peserebbe solo per 50 milioni sui conti pubblici.