Economia

Rivoluzioni d'ottobre. Landini e la mistica delle aziende occupate

Francesco Riccardi venerdì 10 ottobre 2014
Prima Sabattini, poi Rinaldini e ora Landini. I segretari generali della Fiom, nonostante i decenni che passano, cadono sempre lì: proclamano a stagioni alterne la loro "rivoluzione d’ottobre". Hanno lo slogan facile, lo sciopero generale come urgenza catartica e l’occupazione delle fabbriche come mistica.Il primo, buonanima, la promosse alla Fiat. Ma fu un disastro. La marcia dei 40mila quadri nel 1980 dimostrò che il Re, il sindacato massimalista (allora unitario), era nudo. Cioè senza una vera strategia alternativa per combattere la crisi di quel tempo. Era il secolo scorso, ma il colto e passionale Sabattini non si diede mai pace di quella sconfitta e a un congresso della Fiom nei primi anni ’90 intrattenne a lungo i giornalisti sulla «grande stagione del biennio rosso 1919-20» quando gli operai occuparono quasi tutte le fabbriche in Italia «ed erano loro a gestirle meglio di capi e padroni». Cent’anni fa, però, i «padroni» affamavano gli operai e avevano serrato le aziende. Oggi la crisi e la grande trasformazione mostrano come imprenditori (specie medio-piccoli) e dipendenti stiano nella stessa scialuppa in balia del maremoto.Il virus del massimalismo rivoluzionario è tornato a colpire, puntuale ad ottobre, anche Maurizio Landini, che mercoledì a Milano ripeteva appunto l’idea di «voler cambiare davvero il Paese» e di essere «disposti a tutto, anche ad occupare le fabbriche». Qualcuno, più smaliziato, tra le file degli stessi manifestanti ha chiesto: quali? Quelle già chiuse o fuggite all’estero? O quelle delle nuove produzioni, dove i robot stanno sostituendo inesorabilmente gli operai, come alla Volkswagen? In piazza, Landini lamentava pure (a ragione) i bassi livelli salariali dei metalmeccanici. Ma, fosse stato per la Fiom che non ha firmato la gran parte degli ultimi contratti, oggi gli operai avrebbero oltre 400 euro in meno al mese. Fortuna che a stringere i patti ci sono state Fim e Uilm che si sbattono, prendono uova e, a differenza del leader Fiom, non compaiono mai nei talk show della sinistra-chic. Stesso scenario in Fiat. Fosse dipeso dalla Fiom, che col gruppo torinese ha da sempre un conto in sospeso, non esisterebbero più né Pomigliano né Grugliasco né quel che resta di Mirafiori.Il fatto è che gridare slogan è facilissimo, protestare e portare in piazza i lavoratori lo è abbastanza, ma avere in mente un progetto di progresso sociale che non sia la proprietà statale dei mezzi di produzione, già sperimentata con pessimi risultati, è più complicato. Così come esercitare fino in fondo il mestiere principale del sindacalista. Che non è la rappresentanza politica dei lavoratori, ma contrattare per loro le migliori condizioni là dove lavorano: le aziende. E, possibilmente, contribuire a far evolvere queste ultime in luoghi dove gli apporti di fatica e di creatività di ciascuno, nelle diverse responsabilità, si fondono fino a trasformare l’impresa stessa in un bene comune, un utile per tutti. Quanto di più lontano dall’epica del conflitto e dalle rivoluzioni ottobrine.