Venerdì prossimo scade il decreto legge sul rientro di capitali dall'estero varato dal Governo Letta poco prima dell'uscita di scena e non si trasformerà in legge. L'orientamento della maggioranza è la discussione in Parlamento di un nuovo provvedimento, con l'impegno a un percorso parlamentare il più breve possibile, ma che richiederà almeno un paio di mesi. A questo punto la palla passerà a deputati e senatori, con tutte le incognite del caso. Il problema vero è che le norme contenute nel decreto legge, così come sono, non hanno funzionato e sono destinate a non funzionare. Le ragioni sono principalmente due. Prima di tutto l'onere a carico dell'esportatore di capitali pentito, che si autodenuncia e decide di far rientrare i capitali, è troppo elevato. Nel decreto legge non è prevista una aliquota unica, ma una casistica articolata. "La banda di oscillazione è molto ampia - spiega
Fabrizio Vedana, vice direttore generale di Unione fiduciaria, di cui sono azioniste una trentina di banche - e dipende dalle situazioni. Si va da una aliquota intorno all'8-10% per i patrimoni all'estero ereditati e di vecchia data fino addirittura all'80% tra tasse arretrate, sanzioni e interessi".Decisamente troppo per convincere gli esportatori di capitale pentiti a comportamenti virtuosi. La consapevolezza di ciò, peraltro, è diffusa. Tanto che il 6 marzo scorso nelle audizioni degli esperti tenute dalla commissione finanza della Camera sono circolati numeri assai diversi. Perfino una aliquota unica molto, molto più bassa, intorno al 12%. Troppo bassa. E infatti, fin dai giorni successivi, tale eventualità è stata subito smentita.Resta il fatto che le penali previste dal decreto legge vanno ridotte a percentuali più contenute perché, in caso contrario, l'operazione rientro dei capitali evasi è destinata a sicuro insuccesso. Una possibilità è che il prezzo da pagare, comprensivo di sanzioni e interessi, venga fissato intorno a quota 18%. Certamente sarebbe una scelta opportuna, decisiva per il successo della operazione.La seconda condizione indispensabile per il successo dell'iniziativa è aggiungere al pacchetto d'interventi previsto l'approvazione di un nuovo reato: l'autoriciclaggio. La richiesta, presentata con forza, è il risultato del lavoro fatto dalla commissione guidata dal procuratore aggiunto Francesco Greco (del tribunale di Milano), che l'ha considerata necessaria per spingere gli evasori al grande passo, cioè alla denuncia dell'esistenza dei capitali all'estero. Il nuovo reato doveva essere tra i provvedimenti inseriti nel decreto legge, ma poi non è andata così. Resta il fatto che ora è possibile rimediare in sede di approvazione del nuovo pacchetto d'interventi. Finirà davvero così? Sicuramente, in caso contrario, è facile prevedere che la possibilità di far rientrare capitali in misura significativa è destinata a rivelarsi una illusione. Certamente i tempi sono cambiati. E la pressione sulle banche estere in cui hanno trovato rifugio i capitali dell'evasione affinché regolarizzino le posizioni è molto forte. Ma nonostante questo, senza un provvedimento forte come l'approvazione del reato di autoriciclaggio, i capitali evasi sono destinati a restare dove sono o a essere parcheggiati presso banche offshore più compiacenti, che non mancano e continueranno a non mancare. Sarebbe un vero peccato e una occasione clamorosa persa.Tradotto in numeri significa rinunciare a incidere sui capitali finiti oltre frontiera e stimati intorno a 180-200 miliardi di euro. E la rinuncia non riguarderebbe soltanto le somme da incassare in occasione del rientro in Italia, ma anche quelle derivanti dalle imposte future sui capitali tornati legali.