Economia

Intervista. Pennisi: «Ricostruiamo la cultura del lavoro»

Antonio Maria Mira giovedì 6 agosto 2015
«Va bene l’attenzione sul Mezzogiorno, perché i dati della Svimez sono preoccupanti. Ma rischio è che dopo il dibattito di questi giorni ci si dimentichi del Sud che intanto continua ad affondare». Così parla un vescovo del Mezzogiorno, Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, che sottolinea anche «le cause di tipo antropologico e sociale» della crisi delle regioni meridionali, il «fondamentale ruolo educativo» della Chiesa e quello «negativo della mafia che crea un’economia drogata». Quali sono le cause antropologiche e sociali? La gente non ha più fiducia nel futuro, così molti giovani stanno andando via, e non sono più gli emigranti con la valigia di cartone, ma laureati che non torneranno più. Oppure sono interessati solo ad avere un’assistenza o un impiego pubblico, senza la capacità di intraprendere dei rischi. Il fatto che alle ultime elezioni regionali abbia votato solo il 48% è preoccupante. La gente non ha più fiducia nella politica e cerca di arrangiarsi. Una sfiducia che porta anche al decremento demografico. E la mafia? Se n’è andata come dice Saviano? O ancora c’è e condiziona la vita del Sud? La mafia si trasferisce dove ci sono più soldi e affari, e per questo investono al Nord. Però bisogna essere chiari: sicuramente è ancora ben presente e si è ben lontani dallo sconfiggerla. Continua a svolgere un ruolo negativo creando un’economia drogata, l’illusione che uno possa sopravvivere attraverso favori, corruzione, e non con un’economia pulita in cui la persona si senta libera. La Chiesa non è stata in silenzio, molti documenti importanti e fatti concreti come il Progetto Policoro, ma basta? La Chiesa italiana ha sentito questo problema, ricordo molti documenti fin dal 1948, coraggiosi, con analisi molto lucide. Però non bastano bei documenti. Sono importanti, lanciano delle idee, delle prospettive, ma poi l’importante è che si realizzino attraverso dei segni, come il Policoro o gli interventi a sostegno della povertà e degli immigrati. Ma ora bisogna passare da piccoli gesti di carità a una visione complessiva dello sviluppo del Sud. Il compito della Chiesa non è certamente di natura economica ma educativa. Inculcando i valori della legalità, dello sviluppo integrale, il rispetto della Creazione come ci ha ricordato Papa Francesco, ma anche con gesti importanti. Di che tipo? In diocesi stiamo sostenendo un’associazione che vuole promuove un artigianato di qualità. Poi con Policoro stiamo creando delle cooperative sociali per gestire le terre confiscate alla mafia o abbandonate, anche di proprietà di enti ecclesiastici. È importante che la Chiesa si faccia promotrice di azioni che portino sviluppo, diffondendo una cultura del lavoro al posto di una subcultura dell’impiego ottenuto con la raccomandazione. Una cultura della cooperazione, del rischio, rispettando le vocazioni del territorio. Anche noi stiamo assistendo ad una desertificazione industriale. Se invece si fosse fatta una politica rispettosa del territorio forse questo non ci sarebbe. In Sicilia la provincia più sviluppata è quella di Ragusa dove il progetto di sviluppo è fondato sulla vocazione del territorio. Lei viene da Gela che sta vivendo un momento molto incerto dal punto di vista industriale. Don Sturzo quando denunciò la cattedrale nel deserto fu visto come un profeta di sventura mentre adesso la realtà ne conferma l’analisi, con l’Eni che sta abbandonando il sito. Ma c’è bisogno di una collaborazione delle autorità politiche soprattutto per le infrastrutture. Non si è fatto il Ponte di Messina dicendo che si sarebbe investito per fare strade e autostrade che però continuano ad essere un disastro. Ci fosse stato un investimento oculato probabilmente molte industrie non avrebbero chiuso. È un invito al laicato cattolico del Sud ad un maggiore impegno nelle istituzioni? Certamente. Il compito della gerarchia è di dare delle indicazioni, un supporto ma poi alla fine chi deve mobilitarsi è il laicato. È importante che comprenda come c’è una dimensione sociale della fede. Non ci può essere una fede vissuta nel privato e poi comportamenti nella vita pubblica che spesso non hanno nulla a che fare con la fede.