In quegli Anni Ottanta del secolo passato, in piena Era reaganiana, a New York, chiedendo una definizione dell’Italia, era frequente sentirsi rispondere fra la gente semplice come nell’
establishment: Mafia, Pizza, Fiat. Il lato oscuro, l’effimero e il valore legato al progresso, alla tecnologia.«Avete il privilegio di avere la Fiat e gli Agnelli», mi disse a
Le Cirque Woody Allen. Comparve Re Gianni, in compagnia di un Rockefeller; il patron Sirio Maccioni preparò il tavolo commentando all’uso suo: «Do da mangiare ai potenti del mondo». Gianni Agnelli, in quella stagione politicamente difficile, dal suo appartamento in Park Avenue, era stato il vero ambasciatore d’Italia negli Usa. Legatissimo ai Kennedy, poi ai Carter e ai Clinton. Con Henry Kissinger mosca cocchiera, a favorire le relazioni coi Reagan e i Bush.La rievocazione, l’
Amarcord, ha una precisa ragion d’essere, nel momento in cui, con Sergio Marchionne e il matrimonio con la Chrysler, la Fiat ha sostanzialmente trasferito il Quartier Generale a Detroit, pur mantenendo un solido legame con Torino, la città in cui nacque nel 1898, e gli stabilimenti italiani. Mentre la Famiglia Agnelli, attraverso la galassia societaria continua a mantenere il controllo azionario. Coi bilanci floridissimi al di là dell’Oceano, a compensare le difficoltà dei mercati italiani ed europei. Sarebbe contento, approverebbe l’Avvocato la mutazione quasi genetica? Sono tentato di rispondere con un «sì» netto. Aggiungendo che approverebbe in toto le mosse di Sergio Marchionne, che pure in vita ebbe poche opportunità di conoscere né apprezzare. Ma del quale, certamente, «immaginava» l’esistenza, nei circuiti della managerialità internazionale.Scarsi dubbi sul fatto che il giovane Agnelli subisse il fascino americano. Nato nel 1921 da papà Edoardo e dall’inquieta e bellissima Virginia Bourbon del Monte, presto separati dalla malasorte, finì sotto l’ala protettrice del nonno Giovanni. L’ex tenente di cavalleria che nel 1898 aveva partecipato alla fondazione della Fiat, divenendone l’artefice delle fortune, in magistrale collaborazione con un ragioniere a nome Vittorio Valletta.Un po’ trascurato dai troppi mondani genitori, sotto lo sguardo attento del nonno del quale porta il nome di battesimo, il futuro dell’artefice della Grande Fiat, si preannuncia con gesti di monellesca intemperanza. Le elementari Gianni le fa in casa (dove funzionano pure una palestra e una sala per il cinema), poi passa alla scuola pubblica, comportandosi da autentico Giamburrasca. S’appassiona allo sport. Letture preferite: «
Gazzetta e
Guerin sportivo. Rimasto orfano di papà Edoardo (1934), gli affiancano un precettore della statura di Franco Antonicelli. Coraggioso antifascista escluso dall’insegnamento, fa conoscere al pupillo Kafka, Joyce, Melville. Gianni veste però la camicia nera di avanguardista. La sera del 10 giugno 1940, assieme agli universitari del Guf, è in piazza Statuto per plaudire all’entrata in guerra. Nel frattempo ha conosciuto un altro mondo. L’America. Per festeggiare la maturità liceale, il nonno gli ha offerto un viaggio negli Stati Uniti. Sul Rex, il transatlantico più lussuoso e affascinante che esista. New York, le fabbriche dell’auto di Detroit; Chicago e le
farms del Mississippì. Con incredibile facilità apprende l’inglese.Coi venti che preannunciano guerra, potrebbe defilarsi. Ebbe a confessarmi in un lungo colloquio: «In Usa, avevo metabolizzato un principio fondamentale della cultura civile anglosassone, "Right or wrong, my country". E l’amore per l’Italia diverrà per lui un dogma».Sempre inquieto, Gianni abbandona l’Università per la divisa. Scuola di Pinerolo e partenza per la Russia col Savoia cavalleria. «Sognavo una carica, ma il nonno riuscì a farmi rientrare prima del disastro». È la tarda estate del 1942, si combatte ad El Alamein. Il tenente Agnelli s’offre volontario per il fronte libico. «Le pratiche andavano per le lunghe...». Sul lago salato di Gafsa, nel Sud tunisino, comanda una pattuglia autoblindata di ricognizione. La raffica di un caccia inglese lo ferisce a un braccio e a una gamba. «Appena rimpatriato contro la mia volontà, il nonno mi volle vicepresidente della Fiat, dicendo che in famiglia ero l’unico di cui si fidava».Con l’8 settembre, il tormento dei dubbi. Decide di raggiungere il Sud appena «liberato». Su un Topolino, con Suni al fianco. Ad Arezzo perde il controllo dell’auto, finendo in ospedale. Per settimane. Non domo, zoppicando, riprende la strada: ha giurato fedeltà ai Savoia, e per lui la parola è sacra. Entra come ufficiale di collegamento nel comando della divisione Legnano. S’installa a Bergamo, favorendo la rinascita della locale squadra di calcio, l’Atalanta. Intanto, a Torino, il nonno e Valletta, accusati di collaborazionismo, sotto processo rischiano la condanna a morte. Scomparso Giovanni I, Vittorio Valletta viene "riabilitato" dai tribunali speciali che gl’impongono di riprendere, sotto il controllo del Cln e dei Consigli di fabbrica dominati dai comunisti, la produzione. Così avendo imposto Palmiro Togliatti agli estremisti rossi orientati alla nazionalizzazione della Fiat.Valletta, ineguagliabile manager anche per fedeltà alla dinastia Agnelli, convoca Gianni Agnelli a Torino. A muso duro: «I casi sono due. O lei fa il presidente o lo faccio io». Risposta: «Lo faccia lei». Così facendo emergere un aspetto regale del suo carattere: regnare anziché governare. Dopo Valletta verrà infatti Cesare Romiti; poi tanti più o meno bravi manager, fra i quali, in certe emergenze pure l’ultimo dei fratelli. Umberto. Bravissimo, nelle fasi più acute delle crisi aziendali.Quest’arte sovrana, Re Gianni l’ha maturata soprattutto nei suoi lunghi soggiorni negli States. In questo modernissimo anche nelle frequentazioni. Straordinari gli incontri (in Usa) con Giorgio Napolitano, dopo la caduta del Muro di Berlino. Ci fu un periodo, negli anni ruggenti della contestazione postsessantottina, dell’occupazione della Fiat, in cui Gianni Agnelli meditò di trasferirsi a New York, cedendo l’azienda all’Iri. Enrico Cuccia, accogliendo in Mediobanca, lo ammonì con severità: «Lei è un ufficiale, non può arrendersi!».Obbedì, gettando le basi per il rilancio aziendale, con una differente visione strategica rispetto a Umberto. Lui continuava a guardare agli Usa; il fratello privilegiava l’Oriente. Cina e Giappone. Tuttavia, da senatore a vita (1 giugno 1991, per designazione di Francesco Cossiga), continuò a operare sottotraccia su una duplice direttrice: mantenere le posizioni in Italia e Europa; guardare al di là dell’Atlantico. Investendo della
mission che pareva impossibile il giovanissimo Jaki Elkann, il nipote nato dal matrimonio della figlia Margherita proprio a New York. Nel 1976. Scelta azzardata, sembrava. Invece, con la comparsa sulla scena dell’italo-canadese Marchionne, si rivelò lungimirante. In termini dinastici, vincente.Ora, dal famedio del cimitero di Villar Perosa dove riposa, Re Gianni, l’Avvocato, il più illuminato esponente della nostra imprenditorialità (indimenticabile il contributo alla pacificazione sociale da presidente della Confindustria), può guardare dall’Alto i risultati raggiunti. La "sua" Fiat è tornata grande. Una multinazionale che attraverso il matrimonio con la Chrysler ha ritrovato l’antico vigore di azienda-leader; e che tuttavia, leale con se stessa e le proprie origini, è determinata a restare in Italia, nonostante le tante (troppe)incomprensioni.