Tendenza. Produttività e valutazione del rendimento dei lavoratori
Datori divisi tra settimana corta e produttività
Prima ancora della settimana corta sarebbe utile capire come migliorare la produttività dei lavoratori. Una sorpresa arriva dalla valutazione delle imprese italiane. Le aziende manifatturiere di medie dimensioni, per lo più a gestione familiare, infatti, si confermano anche in questo periodo di turbolenze economiche e geopolitiche i «campioni nascosti» dell’economia nazionale. «Un patrimonio da preservare e valorizzare dato che, in un periodo storico in cui molti Paesi stanno deindustrializzando, l’Italia può ancora contare su una filiera corta manifatturiera che ha pochi paragoni - spiega Lorenzo Astolfi, Head of Mid Corporate di Mediobanca -. Se osserviamo gli indicatori di produttività, le nostre medie imprese sovraperformano quelle francesi e tedesche in misura superiore al 20%». Il ritardo sulla produttività che l’Italia sconta rispetto agli altri Paesi europei è da attribuirsi perciò alle classi dimensionali agli estremi, le grandi e micro aziende. Anche dal punto di vista dell’occupazione, le medie imprese italiane hanno registrato un aumento del 40% dell’organico dal 1996 a oggi (il dato migliore in Europa), mentre le grandi aziende hanno visto un calo del 13%. In questo senso l'aumento dei salari non passa solo dal taglio del cuneo fiscale, «su cui c'è un impegno di legislatura del governo», ma anche da «interventi a favore della produttività», investendo sulla competitività delle aziende con cui «poter restituire ai lavoratori, anche in termini di incentivazione e riconoscimento della loro produttività individuale, un incremento delle retribuzioni». Così il ministro del Lavoro Marina Calderone. «Io credo che quella debba essere la strada: noi abbiamo certamente da lavorare tanto tutti insieme per individuare strumenti e supporti che possano favorire il recupero di produttività, ma anche il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle persone a partire dalle condizioni retributive». Quanto al cuneo, Calderone ribadisce che il governo «è al lavoro. C'è un impegno di programma e di legislatura che è quello di arrivare a un taglio di cinque punti entro la fine della legislatura». Oltre al cuneo, potrebbe trovare spazio anche un intervento per incentivare i premi di produttività. Oggi sono tassati con una cedolare secca del 10% fino a 3mila euro annui, per redditi fino a 80mila euro. Le somme sono riconosciute ai dipendenti al raggiungimento di incrementi di produttività, di redditività, qualità, efficienza e innovazione, ma la crisi e soprattutto i paletti molto rigidi dell’Agenzia delle Entrate per far scattare la tassazione agevolata stanno penalizzando la diffusione dell’istituto. Se poi il premio di produzione si converte in welfare è esentasse. Secondo il report sul deposito dei contratti del ministero del Lavoro, al 15 novembre i lavoratori beneficiari di premi di produttività sono 3.775.278 (il 16,3% degli occupati), di cui 2.861.210 riferiti a contratti aziendali e 914.068 a contratti territoriali (il totale dei lavoratori italiani supera i 23milioni). Il valore annuo medio del premio risulta pari a 1.503,64 euro, che sale a 1.653,04 euro per i premi derivanti da contratti aziendali e scende a 771,92 euro per quelli derivanti da contratti territoriali. In totale i contratti attivi sono 13.038, di cui 11.266 aziendali e 1.772 territoriali. Quanto agli interventi: 10.342 si propongono di raggiungere obiettivi di produttività, 8.025 di redditività, 6.590 di qualità, mentre 1.549 prevedono un piano di partecipazione e 7.878 prevedono misure di welfare aziendale. La quota maggiore, il 73%, si concentra al Nord, poi segue il Centro con il 18% dei contratti, e infine il Sud, con il 9%. Il 60% dei contratti depositati si riferisce ai servizi, il 39% all’industria e l'1% all’agricoltura. Se invece ci si sofferma sulla dimensione aziendale, otteniamo che il 50% ha un numero di dipendenti inferiore a 50, il 35% ha un numero di dipendenti maggiore o uguale a 100 e il 15% ha un numero di dipendenti compreso fra 50 e 99.
Il giuslavorista Failla: tra settimana corta e valutazione dei lavoratori
Com’è possibile lavorare meno a parità di salario? Questa è la domanda delle domande che è alla base del dibattito intorno all’introduzione della cosiddetta settimana corta - ossia passare da cinque a quattro giorni lavorativi a settimana - mantenendo lo stesso livello retributivo. Sembra un corto circuito, ma in realtà nel nostro ordinamento una possibilità in questo senso esiste. «A oggi le aziende che hanno introdotto la settimana corta hanno solo “tagliato” un giorno di lavoro, “spalmando” le ore perse sui giorni residui, di solito innalzando l’orario giornaliero di un'ora – sottolinea Luca Failla, uno dei più noti giuslavoristi italiani e professore a contratto alla Lum-De Gennaro di Bari -. Nulla è stato invece previsto in termini di garanzia di produttività e rendimento della prestazione nel tempo effettivamente lavorato. L’introduzione della settimana corta a parità di salario in Italia sarà possibile solo a patto di fissare e rispettare il cosiddetto rendimento atteso dalle aziende rispetto ai propri dipendenti. Si tratta di cambiare paradigma del contratto di lavoro subordinato sino a oggi praticato in cui le aziende, con il contratto acquistano e pagano la prestazione del dipendente per una certa quantità di tempo, ma non il risultato di quell’attività. Infatti, nell’attuale sistema contrattuale il rendimento del lavoratore non fa parte del contratto né della prestazione resa. Stando così le cose nessuna azienda accetterà il rischio di retribuire un lavoratore allo stesso modo pur lavorando meno. Ciò è possibile solo se il rendimento atteso dall’azienda sarà almeno superiore a quello precedente, con buona pace dei sindacati e degli sforzi di direttori del personale di buona volontà». Non serve quindi una nuova legge. «Per facilitare il passaggio alla settimana corta, così come declinato, non serve una nuova norma. L’attuale quadro legislativo del lavoro – prosegue Failla - permette di poter gestire senza difficoltà la materia. Ciò che serve, al contrario, è sperimentare in concreto nuovi modelli di organizzazione del lavoro. Come per lo smart working basta una regolamentazione individuale con i lavoratori interessati in cui fissare obiettivi di rendimento attesi e misurabili delle prestazioni lavorative (di volta in volta variabili in funzioni delle attività), il cui mancato raggiungimento – su base giornaliera, settimanale, mensile o multiperiodale – farà decadere per il lavoratore interessato il beneficio della settimana corta. In tal modo il rendimento atteso entrerà a far parte del contratto di lavoro sino ad oggi basato unicamente sullo scambio retribuzione-orario di lavoro e starà alle aziende sperimentare nuovi modelli organizzativi virtuosi».
Se migliora il benessere migliorano anche le prestazioni
Una ricerca del movimento non profit 4 Day Week Global, condotta su 33 aziende in America e in Irlanda, testa l’esperimento della settimana lavorativa di quattro giorni, mostra alcuni risultati stupefacenti relativi al miglioramento dello stile di vita dei dipendenti: diminuisce infatti del 9% l’insonnia e la stanchezza percepita e aumentano invece del 23,7% i minuti di allenamento nell’arco della settimana. Secondo la ricerca, il voto medio delle aziende in merito all’esperimento è nove su dieci, confermando dunque il tentativo come vincente. A livello economico non solo non ci sono ricadute negative, ma si registra perfino un 37,55% in più delle entrate rispetto allo stesso semestre dell’anno precedente. I principali benefici per i dipendenti hanno a che fare con lo stress e il sonno: lasciare più tempo ai lavoratori permette loro di essere maggiormente soddisfatti e appagati e questo conduce al contempo a un’organizzazione del lavoro più funzionale ed efficiente, giacché i risultati e gli obiettivi rimangono immutati. Più tempo a disposizione quindi per sé stessi e per la propria famiglia, tempo in cui riappropriarsi del proprio benessere e della propria salute mentale, tema quanto mai dibattuto soprattutto dopo gli effetti della pandemia. Ci si chiede pertanto se questo esperimento possa diventare in realtà parte del piano organizzativo dell’azienda e se possa condurre nel futuro all’implementazione di modelli di lavoro in grado di raggiungere un work life-balance più positivo. A monitorare come e quanto questo equilibrio si traduca in benessere e maggiore consapevolezza ci pensa Healthy Virtuoso (healthyvirtuoso.com/it/), piattaforma che attraverso programmi appositi incentiva i dipendenti a migliorare il proprio stile di vita. Grazie all’app vengono monitorati in maniera sicura per l’utente il numero di passi, le ore di attività sportiva, di meditazione e di sonno: tutti parametri fondamentali per migliorare le proprie abitudini di vita e diminuire la sedentarietà. Infine Aon, azienda leader nei servizi professionali a livello mondiale, pubblica l’edizione 2022-2023 della Global Wellbeing Survey - condotta su oltre 1.100 organizzazioni - evidenziando come, a livello globale, il miglioramento dei fattori legati al benessere dei dipendenti possa aumentare le performance aziendali da un minimo dell’11% fino al 55%. Esiste quindi una correlazione positiva tra il benessere dei dipendenti e una vita lavorativa sostenibile, che può avere un impatto sulle prestazioni aziendali. Intraprendendo, infatti, attività in ambito wellbeing per i dipendenti, tramite iniziative e investimenti, e diffondendo una cultura e clima di benessere, le aziende migliorano in termini di resilienza, flessibilità e senso di appartenenza della forza lavoro, rendendo la vita lavorativa più sostenibile. Le priorità delle aziende nei prossimi cinque anni sono attrarre e trattenere i talenti, promuovere le diverse dimensioni del benessere dei dipendenti a 360 gradi (fisico, emotivo, sociale, professionale e finanziario) e avere un maggior controllo dei costi e dell’efficienza. Il livello attuale di benessere complessivo dei dipendenti è in linea con il dato globale e considerato “buono” dal 37% degli intervistati e “molto buono” dal 33%. Opinioni positive sono state riportate anche sul grado di resilienza (“buona” e “molto buona” per il 32% del campione) e sulla flessibilità sul lavoro (“molto buona” per il 36%).