Economia

Politiche attive. L'Italia è tra le ultime in Europa

Maurizio Carucci sabato 6 gennaio 2024

Ancora poca la spesa per le politiche attive in Italia

L'Italia è tra le ultime in Europa per la spesa in politiche attive del lavoro, con una percentuale pari allo 0,22% del Pil, contro una media europea dello 0,61%: circa un terzo. Per avere un’idea, la Spagna (uno dei Paesi che destina la maggiore spesa) si attesta all’1,03% del Pil, quasi cinque volte l’Italia. Nel corso degli anni il nostro Paese ha sempre più depotenziato l’investimento in queste misure, tanto che dal 2008 al 2020 il saldo negativo è stato del -39%. Un dato, tra l’altro, attenuato dall’aumento di investimenti effettuato all’inizio della crisi pandemica (+ 8% dal 2019 al 2020), come del resto fatto in quasi in tutti i Paesi europei. I dati, che analizzano l’andamento della spesa per le politiche nel mercato del lavoro a cavallo delle due grandi crisi del 2008 e del 2020, sono stati elaborati dall’Inapp-Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche facendo riferimento alla classificazione delle politiche del mercato del lavoro realizzata da Eurostat. «Le politiche del lavoro in Italia registrano una grande debolezza soprattutto nell’area delle politiche cosiddette “attive” - spiega Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp -. Un raffronto con gli altri Paesi europei circa la spesa destinata alle politiche del lavoro mostra uno scarto notevole a vantaggio delle politiche “passive”: il 2,6 del Pil in Italia contro una media europea del 2%; mentre per le politiche “attive” si spende in Italia lo 0,22% del Pil contro una media europea dello 0,61%. Ma la debolezza delle politiche attive si manifesta soprattutto nei servizi per il lavoro. Questi, oltre a risentire della esiguità dei finanziamenti, registrano grandi limiti sul piano dell’efficienza e sul piano dell’efficacia». A ben vedere, la percentuale di spesa dell’Italia per il complesso delle politiche del mercato del lavoro appare in linea con la media dell’Unione Europea (2,83% del Pil contro il 2,86%), anzi tra il 2019 e il 2020 ha registrato un incremento maggiore (86% rispetto al 73% medio degli altri Paesi dell’Ue. Ma più che l’ammontare complessivo della spesa è proprio la distribuzione di tali risorse che rende peculiare il nostro sistema. Basti pensare che la spesa per i “Servizi” (la terza voce che insieme alle politiche attive e a quelle passive compone la classificazione elaborata da Eurostat in cui sono declinate le politiche complessive del mercato del lavoro) è quasi impercettibile nel nostro Paese: anche in questo caso è tra le più basse in Europa con solo lo 0,26 per mille del Pil, contro una media europea del 2 per mille.
«L’aumento delle risorse investite non è però sufficiente – aggunge Fadda - perché i servizi per l’impiego assolvano al compito di favorire efficacemente l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. A questo scopo è necessario individuare e rimuovere le altre cause che minano la funzionalità dei servizi. In particolare bisogna considerare (e metterne a fuoco le peculiarità per le regioni del Mezzogiorno) tre aspetti: la chiarezza sulle funzioni che i Centri per l’impiego devono svolgere nelle dinamiche dei mercati del lavoro locali; le dotazioni tecnologiche e l’efficienza organizzativa dei Centri, l’adeguamento delle competenze degli operatori dei Centri. Tutti i responsabili delle politiche e gli attori operanti nel mercato del lavoro sono chiamati a formare una rete integrata di collaborazione nel quadro di un sistema organico di politiche del lavoro». Per Pasquale Lampugnale, vice presidente Piccola industria Confindustria per economia, credito, finanza e fisco e coordinatore Comitato scientifico consultivo), «l’Italia è ancora la seconda manifattura d’Europa, ma si trova oggi ad affrontare un delicato periodo di transizioni fondamentali come quella digitale e quella ecologica. È necessario quindi che il mondo della formazione scolastica e universitaria si adegui con la stessa velocità richiesta alle imprese, altrimenti il nostro sistema industriale finirà con il perdere competitività rispetto ai nostri principali competitors europei». «La qualità dei percorsi di formazione professionale – sottolinea Lampugnale - è la strada maestra per ridurre il tasso di disoccupazione e aumentare la competitività delle nostre aziende. Il modello Its-Istituti Tecnici Superiori risponde a questa necessità, e per questo è molto apprezzato dalle aziende. Ma sono ancora pochi i giovani che vi si diplomano per rispondere al fabbisogno dell’industria italiana. Rispetto agli almeno 52mila diplomati Its necessari, ogni anno se ne registrano poco più di 6mila, con un mismatch che rischia di crescere ulteriormente in futuro. A tal fine, Confindustria Campania ha avviato interlocuzioni con le organizzazioni regionali che operano su questi temi e sono volte alla creazione di maggiori sinergie tra tessuto industriale campano, Università e Its, in maniera da porre un freno all’emorragia dei nostri giovani costretti a cercare lavoro in altre regioni o all’estero. C’è ancora molto da fare in termini di potenziamento delle politiche attive e del sistema del collocamento, pubblico e privato, elemento sempre più necessario per favorire l’inserimento lavorativo e fronteggiare rapidamente i crescenti fenomeni di skill shortage».