Oltre la crisi. In deficit di giovani e stranieri: ecco perché l'Italia non cresce più
Ci sono segnali positivi sull’economia italiana, eppure non è facile essere ottimisti. Le Previsioni di primavera pubblicate dalla Commissione europea dicono che nel nostro Paese è in atto solo una «modesta ripresa» mentre nel resto del Continente «la crescita è salda». Anche l’indicatore Istat che anticipa gli andamenti economici ha segnalato ad aprile che la lancetta della crescita attesa è ancora in zona positiva, ma si sta purtroppo abbassando. Dopo dieci anni tra crisi e stagnazione, insomma, segnali di una vera svolta non se ne vedono. Ma il punto è: ci sarà mai una vera ripresa in Italia? La questione è seria, perché al di là delle variazioni dei diversi indici che accendono e spengono gli entusiasmi a ogni nuova diffusione, ci sono almeno due questioni da valutare per capire se il nostro Paese potrà conoscere una accettabile fase di sviluppo nel medio-lungo periodo. Il primo riguarda la ormai prossima fine della stagione degli stimoli monetari concessi dalla Banca centrale europea, il secondo l’emergenza demografica che iscrive l’Italia tra gli osservati speciali di questa epoca. Due argomenti che il mondo politico dovrebbe affrontare con maggiore convinzione rispetto a quanto fatto finora. Perché non ci sarà una crescita che a un certo punto calerà magicamente dall’alto e verrà a salvarci, ma ci sono riforme che vanno attuate subito per scongiurare il collasso.
Se finisce il "doping" della Bce
Il Pil dell’Italia dovrebbe crescere poco meno dell’1% quest’anno e poco più dell’1% il prossimo. Nel resto d’Europa l’espansione sarà più decisa, tra l’1,5 e il 2% a seconda dei Paesi. Il Pil non misura il benessere e la felicità, in ogni caso ci dice molto su quante risorse abbiamo a disposizione e se i conti pubblici sono o no a rischio. In linea con la ripresa europea anche l’inflazione sta risalendo verso quel 2% che rappresenta l’obiettivo della politica monetaria della Banca centrale. E questo è un immediato fattore di rischio. Presto l’istituto guidato da Mario Draghi incomincerà a ridurre gli acquisti di titoli di Stato e di bond societari, uno "shopping" partito nel 2015 e che al momento vale 60 miliardi di euro al mese. La fine del "Quantitative easing" (Qe) è una pessima notizia per un Paese come l’Italia il cui debito pubblico salirà ancora nel 2017 al 133% del Pil, perché renderà ulteriormente più pesante questo fardello. È grazie agli acquisti della Bce che Roma in questi anni ha potuto mantenere basso il costo del finanziamento del debito, tenere a bada lo spread e varare misure definite "espansive" come i bonus da 80 euro. Anche immaginando che il Qe venga prolungato per qualche mese nel 2018, il suo esaurimento pone alcune domande, considerato che le misure non sono state così espansive come si sperava e che i guadagni non sono stati usati per varare interventi strutturali a favore della competitività. Quale politica economica saremo in grado di attuare quando verrà meno il doping della Bce? Quali margini avremo per nuovi interventi fiscali senza scaricarne i costi sulle generazioni future? Quali sacrifici ci aspettano?
I costi dell'inverno demografico
Se la fine del favore monetario chiama in causa la gestione delle finanze pubbliche, il declino demografico rappresenta il maggiore ostacolo alle possibilità di una crescita sostenibile. La Commissione europea spiega che il Pil oggi è tenuto a freno dall’incertezza politica e dalla crisi delle banche. Ma questi in fondo sono fattori contingenti. La realtà è che nessun Paese che perde popolazione può immaginare di avere tassi di crescita soddisfacenti e nemmeno di migliorare gli indicatori di benessere. Dal 2015 i residenti in Italia hanno incominciato a calare, lo scorso anno la popolazione è scesa di altre 86mila unità. Le Previsioni demografiche Istat per il 2065 indicano che tra mezzo secolo l’Italia potrebbe avere 7 milioni di abitanti in meno rispetto ai 60 milioni di oggi, il Sud andrà spopolandosi a favore del Nord, l’età media salirà a 50 anni dai 44,7 attuali e ci saranno diversi problemi da gestire. La questione non è come andranno le cose dal 2065, quando in fondo saremo un po’ meno compressi, ma in quali condizioni ci arriveremo. È la transizione che fa paura. Oggi la fascia di età più numerosa è rappresentata dai 50enni, gli ultimi "baby boomers", come sono chiamati i nati tra il 1961 e il 1975. Già ora ci sono più occupati e disoccupati over 50 che giovani tra i 15 e i 24 anni, per il solo fatto che i "genitori" sono ormai una coorte più numerosa dei "figli". Ecco, immaginiamo cosa potrà accadere quando la generazione più anziana si ritirerà dal lavoro e sarà interamente "a carico" di un numero limitato di giovani. L’anno più critico è considerato il 2045, quando un terzo della popolazione avrà più di 65 anni e solo il 54% dei residenti si troverà in età da lavoro.
Il declino demografico non sarà indolore e si tradurrà in minori risorse per il welfare ma anche minore crescita. Prendiamo ad esempio i consumi. Nella vita di un individuo le "spese" tendono a salire dai 25 anni fino ai 50, quando raggiungono il picco, e poi vanno calando. Con una popolazione anziana sarà più difficile sostenere l’economia con i consumi, mentre aumenterà la richiesta di servizi di cura in un contesto in cui il welfare e il sistema previdenziale saranno sotto stress. Lavoratori più anziani sono in genere più esperti ma anche meno produttivi, tendono ad avere maggiormente bisogno di "permessi" sanitari oltre che di un’organizzazione del lavoro più flessibile. Il calo della popolazione non si traduce solo in un impoverimento umano. «La crescita – ha scritto Ruchir Sharma sul "New York Times" – ha più a che fare con la popolazione che con la produttività, più con nascite e immigrati che con Google e Stanford». Poche nascite e un’immigrazione mal gestita comprimono strutturalmente il potenziale di sviluppo di un Paese. Diversi studi indicano che la demografia sbilanciata può sottrarre all’Italia fino a un punto di crescita potenziale.
Urgente un piano d'azione
La crisi scoppiata nel 2008 ha cambiato per sempre uno scenario che ci aveva abituati a ritmi di sviluppo ben diversi. E colpendo in particolare Paesi con una natalità già debole come l’Italia, dove il tasso di fecondità è sceso a 1,35 figli per donna, ha aggravato il problema. Che fare? La risposta è semplice. Intervenire per sostenere le nascite e trasformare l’immigrazione in «fonte di opportunità e crescita», per usare l’espressione usata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nella recente visita in Argentina. L’urgenza non è un’opinione. Il rischio-collasso è prospettato anche nel Rapporto 2017 della Fondazione per la Sussidiarietà, dedicato proprio alla crisi demografica e curato da Giancarlo Blangiardo. «Pensare di guarire immediatamente non è possibile – afferma lo studioso dell’Università di Milano Bicocca – ma incominciamo a sistemare il ricambio generazionale e a fare arrivare nuove forze» per tenere in piedi il sistema. Il punto centrale è dare un senso agli interventi: coglie nel segno il presidente della Fondazione Sussidiarietà, Giorgio Vittadini, quando dice che la politica dovrebbe uscire dalla logica di corto respiro dei bonus, superare gli «interventi occasionali e privi di una visione coerente» e pensare a un grande piano d’azione.
L'Italia Paese per giovani?
Un Paese nelle condizioni dell’Italia deve concentrare sui giovani la gran parte delle energie di cui dispone. Investire cioè su quel capitale umano in grado di fare la differenza nel futuro, anche prevenendo il rischio che gli anziani finiscano per essere considerati "un peso", "scarti". Puntare sui giovani significa favorire i bambini che devono ancora nascere, i giovani che devono prepararsi al mondo del lavoro, i giovani che arrivano e vanno integrati perché esprimano il loro meglio, i giovani di altre nazioni che devono trovare vantaggioso trasferirsi qui. L’unica speranza è trasformarsi in un Paese a misura di giovani e famiglie, dove il debito non è più un fardello, i conti sono in ordine, è premiante mettere al mondo figli, l’educazione è di qualità e accessibile, i servizi per bambini e giovani non hanno tariffe, le case sono alla portata e il lavoro è dignità, non sfruttamento. Dove la tenuta della famiglia è un valore riconosciuto, perché non c’è benessere nella disgregazione. L’abbondanza e la qualità delle risorse di cui sono portatori i ragazzi è puntualmente certificata dal Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo, insieme alla necessità che la politica fornisca risposte adeguate alla valorizzazione delle attese e dei talenti che restano compressi. Scrive il curatore del Rapporto, Alessandro Rosina: «Solo quando le opportunità delle nuove generazioni aumentano rispetto a quelle precedenti possiamo dire che la direzione intrapresa è quella giusta».