Gig economy. Inapp: per i 570mila lavoratori delle piattaforme rischio caporalato
Protesta dei rider a Napoli
Sono 570mila i lavoratori delle piattaforme digitali in senso stretto, almeno il triplo (1,6 milioni) gli italiani che in vario modo hanno ricavato un reddito attraverso la gig economy. Per molti di loro, complice anche la crisi occupazionale innescata dalla pandemia, non si tratta di una scelta ma di una necessità. Si sceglie di fare il rider o di consegnare i pacchi di Amazon perché sul mercato non ci sono altri impieghi disponibili. Un’indagine di Inapp-Plus, dal titolo "Lavoro virtuale nel mondo reale" che ha coinvolto 45mila intervistati nel periodo tra marzo e luglio del 2021, fotografa una situazione complessa e in continua evoluzione. Il dato più significativo è che per l'80% degli intervistati si tratta di un lavoro importante o addirittura essenziale, per una metà (48,1%, pari a 274mila soggetti) rappresenta l'attività principale e al tempo stesso l’unica alternativa possibile (50,7%).
A pochi giorni dalla presentazione della proposta di direttiva della Commissione europea per il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle piattaforme, che prevede l’introduzione del modello spagnolo con il riconoscimento del ruolo subordinato e maggiori tutele, l’indagine Inapp sfata alcune opinioni diffuse sul fatto che si tratti di lavoretti saltuari e che siano gli stessi lavoratori a preferire formule flessibili senza contratto ed esclusività. «L'adozione della direttiva Ue può rappresentare un importante svolta spiega Sebastiano Fadda, presidente dell'Inapp - In tale nuovo contesto fino a cinque milioni e mezzo di lavoratori digitali in Europa potrebbero essere riclassificati come lavoratori subordinati, usufruendo così di alcuni diritti fondamenti (tra cui salario minimo, orario di lavoro, sicurezza e salute sul lavoro, forme di assicurazione e protezione sociale) finora negati».
L'universo delle piattaforme è variegato. I platform worker veri e propri sono 570.521, Non parliamo solo dei rider, ma di un insieme eterogeneo di attività che vanno dalla consegna di pacchi o pasti a domicilio allo svolgimento di compiti on line (traduzioni, programmi informatici, riconoscimento immagini). A loro vanno aggiunti coloro che vendono prodotti o affittano beni di proprietà per un totale di 2,3 milioni di persone che hanno ricavato un reddito tramite le piattaforme digitali..
Il vero problema è il rischio dello sfruttamento. Come molte attività "sommerse" anche il lavoro tramite piattaforma si presta a condizioni di ridotta autonomia e a sospetti di rapporti irregolari, se non addirittura fenomeni di "caporalato". Basti pensare che circa 3 lavoratori su dieci non hanno un contratto scritto, che il 26% dei lavoratori non gestisce direttamente l'account di lavoro per accedere alla piattaforma e che nel 13% dei casi il pagamento viene gestito da un ulteriore soggetto esterno.