Economia

Intervista. Giovannini: «Per l'occupazione servono investimenti»

Francesco Riccardi mercoledì 29 luglio 2015
«L’allarme lanciato dal Fondo monetario internazionale è tutt’altro che esagerato. Da tempo si ipotizza addirittura una 'stagnazione secolare' per l’Occidente e l’Europa in particolare. E se la bassa crescita si interseca con gli effetti della nuova rivoluzione industriale, il rischio che ci sia una crescita dell’occupazione limitata e insufficiente per riassorbire disoccupazione e inattività diventa concreto». Enrico Giovannini, ex ministro del Lavoro, già presidente dell’Istat e docente di Statistica economica all’Università di Tor Vergata, di solito non veste i panni della Cassandra. Questa volta, però, non nasconde le preoccupazioni, in particolare per i giovani, quella che il Fondo monetario ipotizza possa diventare una 'generazione perduta', che non ha occasione di entrare nel mercato del lavoro. Al Fondo monetario ha replicato il Tesoro: 'I segnali di crescita ci sono e non si tiene conto delle riforme già effettuate come quella sul mercato del lavoro'. La crescita economica per il momento è ancora timida e senza una forte ripresa, una riforma come il Jobs act da sola non è in grado di generare occupazione aggiuntiva. E infatti, come dimostrano i dati, l’occupazione è sostanzialmente sui livelli di un anno fa. Oltre agli effetti della domanda aggregata, dobbiamo poi guardare allo sviluppo dei singoli settori. Prendiamo le costruzioni: in questi anni hanno perso oltre 600mila occupati e non si vedono segni di ripresa. Si tratta di persone con bassa qualificazione, che non è facile riconvertire ad altri lavori. Il manifatturiero appare in ripresa, ma il nuovo modello di 'industria 4.0' – come viene chiamata la quarta rivoluzione industriale caratterizzata da una più alta intensità di capitale investito e minore apporto occupazionale, con i robot guidati direttamente dai computer – rischia di produrre una dinamica occupazionale assai ridotta. A pesare c’è poi lo stock di persone in cassa integrazione da riassorbire. In questo scenario di cambiamento conta però anche in quali settori si decide di investire e come... Certo. Dovremmo investire nei servizi. Non in quelli, come le badanti o le colf che hanno un basso valore aggiunto, ma nel terziario avanzato che può assicurare sia maggior valore aggiunto sia un significativo apporto occupazionale. Allo stesso modo, se si vuole rilanciare l’edilizia è impensabile cementificare ancora il Paese, mentre se si progettasse un grande piano di riconversione e riqualificazione del già costruito si potrebbe avere una ripresa del settore con una crescita occupazionale significativa. Servono però investimenti consistenti che non paiono all’orizzonte. La lunga crisi ha reso tutti più prudenti. Gli imprenditori hanno una visibilità ridotta sulle prospettive di crescita e sono perciò indotti a rimandare le scelte di investimento e a indirizzarsi verso tecnologie a risparmio di forza lavoro. Servirebbero anche investimenti pubblici... Certamente. L’Europa dovrebbe decidere con chiarezza che cosa vuole costruire nel suo futuro, in quali campi essere leader. In questo senso, il piano Juncker di sviluppo deve servire non solo a finanziare direttamente alcuni investimenti, quanto soprattutto a rendere il Continente attrattivo per i capitali esteri. Questo è un nodo fondamentale. Se l’Europa continua ad essere percepita come un’area a bassa crescita – e quindi con un ritorno limitato sul capitale investito – gli investimenti dall’estero non arriveranno, rendendo più difficile la stessa ripresa. Stessa cosa per l’italia, che dovrebbe tagliare la spesa pubblica corrente e aumentare di molto quella per investimenti. Resta il nodo delle persone senza lavoro. Da tempo ricordo che, come gli studi internazionali mostrano, l’investimento nel capitale umano è il vero driver della crescita economica e sociale. Oggi, dopo 7 anni di crisi, il nostro capitale umano è particolarmente depauperato. Non penso solo alle persone che hanno perso il lavoro, ma ai 2,5 milioni di giovani neet (quelli che non lavorano né studiano né sono in formazione), alla nostra popolazione che, in generale, ha minori competenze matematiche, linguistiche e di problem solving rispetto a quelle di altre nazioni. Servono più investimenti non solo nella scuola, ma nella formazione in generale, occorre un sistema di life long learning che permetta l’aggiornamento dei lavoratori lungo tutta la loro vita professionale per rendere le persone più occupabili. Durante il Governo Letta avevo nominato una commissione guidata da Tullio De Mauro, che aveva elaborato proposte concrete, ancora disponibili sul sito del Ministero del Lavoro. In questo senso mi preoccupa la mancanza, nel disegno del Jobs act, di risorse aggiuntive significative per le politiche attive del lavoro e la formazione appunto. Siamo davvero alla 'generazione perduta' come dice il Fmi? Il rischio di avere una 'generazione perduta' è fondato, ma perciò dobbiamo combattere contro questa evenienza. Durante il Governo Letta eravamo riusciti a porre il tema del lavoro – e in particolare dell’attivazione dei giovani – al centro dell’agenda europea, con l’anticipo dei fondi per la Garanzia Giovani e i vertici di Berlino e di Parigi di luglio e ottobre 2013. Poi quell’attenzione e quella spinta si sono affievolite. È ora di rimettere questo tema in cima alle priorità.