Paradise Papers. Paradisi fiscali, il conto lo pagano i più poveri
I paradisi fiscali sono solo la punta dell’iceberg di un problema più grosso: quello di un fisco che invece di tutelare i più deboli, finisce per aumentare le diseguaglianze. «L’evasione e l’elusione fiscale delle corporation sottraggono ai Paesi più poveri 100 miliardi di dollari l’anno, sufficienti per mandare a scuola 124 milioni di ragazzi e salvare la vita di 6 milioni di bambini».
A fare i conti dell’impatto sociale del nuovo scandalo internazionale sui paradisi fiscali ribattezzato Paradise Papers e che ha suscitato un terremoto politico in Inghilterra per il coinvolgimento di una società della regina Elisabetta, è l’Oxfam. L’associazione sottolinea come «alle severe parole di condanna» da parte dei governi hanno fatto seguito ad oggi «solo riforme timide, indebolite dall’enorme pressione di multinazionali e paperoni».
Secondo Susana Ruiz, policy advisor di Oxfam sui dossier di fiscalità internazionale, bisogna creare una blacklist a livello globale, con misure sanzionatorie. Ad oggi nella lista nera dell’Ocse figura un solo Paese, Trinidad-Tobago e anche il processo di blacklisting in corso nell’Ue rischia di essere un buco nell’acqua.
Sul banco degli imputati sono finiti, tra gli altri, Apple e Facebook, il co-fondatore di Microsoft Paul Allen, i cantanti Madonna e Bono, il ministro del Commercio di Donald Trump, Wilburs Ross, il tesoriere del presidente canadese, Justin Trudeau. Tutti colpevoli di aver investito nei paradisi fiscali per pagare meno tasse e fare soldi facili. Le ultime rivelazioni contenute nelle nuove carte dei Panama Papers, oltre 13,4 milioni di documenti riservati ottenuti dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung che a sua volta li ha condivisi con l’International Consortium of Investigative Journalists e i suoi partner tra cui il Guardian, la Bbc, il New York Times e in Italia l’Espresso e la trasmissione Report, alzano il velo su un fenomeno noto ma che assume dimensioni sempre più ampie.
I file provengono da due studi internazionali che forniscono e gestiscono società offshore: Appleby, fondato nelle Bermuda e Asiaciti Trust, quartier generale a Singapore e altre sette sedi.
Ma il nome che ha fatto più scandalo, è quello della regina Elisabetta II. L’immobiliare The Duchy of Lancaster - società privata della corona - avrebbe investito sette milioni e mezzo di dollari in un fondo delle isole Cayman. Il denaro sarebbe stato investito - dopo il passaggio offshore - anche in catene commerciali come Threshers e BrightHouse criticate da tempo per il presunto sfruttamento di lavoratori, famiglie povere e persone vulnerabili. Il leader laburista Jeremy Corbyn ha invitato la regina a chiedere scusa. «Tutti coloro che utilizzano per i loro interessi i paradisi fiscali devono riconoscere il danno che provocano alla società dato che il mancato pagamento delle tasse sui loro patrimoni miliardari penalizza, fra l’altro, ospedali e scuole».
Il video della campagna Oxfam contro i paradisi fiscali