L'analisi. Ossessione elettrica, il paradosso dell'auto
L'automobile non parla più di estetica, e nemmeno di stile o di velocità. Elettrificazione è da almeno un paio di anni la parola d’ordine, ma se fino a qualche tempo fa era un’ipotesi o poco più, ormai invece sembra che non esista altro nella testa dei costruttori. Al Salone di Parigi, che chiude domenica dopo dieci giorni di passione (poca) e perplessità (molta), è impossibile fare un passo senza imbattersi in una vettura a batteria. E non sono più solo le piccole city-car che hanno sdoganato il genere, ma ovunque vetture “premium” sempre più grandi e lussuose. Le protagoniste della rassegna sono loro: Mercedes EQC, Audi e-tron, Jaguar I-Pace. Ed è il segno di una nuova era.
In ballo ci sono cifre da far girare la testa: il numero uno di Renault-Nissan, Carlos Ghosn, ha annunciato che per il piano “Drive The Future” del Gruppo si prevedono 8 nuovi modelli elettrici e 12 ibridi entro il 2022, con investimenti per 18 miliardi di euro. Allineate le altre: 10 i miliardi di euro stanziati da Mercedes (con i dieci modelli della nuova divisione EQ previsti entro il 2025), una ventina per Audi nel piano quinquennale, 6 per Porsche entro il 2022, mentre Bmw vuole ottenere un quarto delle vendite nel 2025 da vetture “green”.
Il problema per loro sarà riuscire a venderle, visto che mediamente produrre una vettura elettrica costa 7.500 euro in più di una corrispondente ad alimentazione tradizionale, e una ibrida ha un gap di 5.000 euro. Insomma, anche tralasciando le perplessità generate da autonomia (ormai sempre più alta) e infrastrutture di ricarica, non è immaginabile un’inversione di tendenza sostanziale del mercato. Che sta rispondendo bene alla spasmodica corsa all’elettrico dei costruttori, ma con un’incidenza ancora marginale. La sfida è comunque cruciale: «Quello che tutti devono capire è che la mobilità pulita è come il cibo biologico: è più costosa», dice Carlos Tavares, amministratore delegato del Gruppo PSA (Peugeot-Citroen-Opel-DS). «O accettiamo di pagare di più per la mobilità a basse o zero emisioni, oppure mettiamo in pericolo l’intera industria automobilistica europea...».
Ma la bulimia elettrica non è ovviamente una scelta casuale da parte dei costruttori, alcuni dei quali si preparano addirittura ad accettare di produrre in perdita questo tipo di vetture: «Volkswagen sta per lanciare una generazione di veicoli elettrici che potrebbero avere sul mercato lo stesso prezzo di quelli a motore tradizionale, e quindi senza alcun profitto», dice Laurent Petizon, amministratore delegato della società di consulenza AlixPartners.
Cosa c’è dietro allora a questa sbornia elettrica? Le vere motivazioni sono due: la prima si chiama Cina. Mercato leader al mondo per le vendite di automobili (quasi 29 milioni di unità l’anno scorso) ma anche al primo posto per le consegne di elettriche (800 mila nel 2017, con una crescita del 53%). Inevitabile dunque che l’industria dell’auto europea investa in Cina nei veicoli elettrici sette volte di più che nell’Ue, 21,7 miliardi di euro contro 3,2, stando alle cifre elaborate dalla Ong Transport & Environment (T&E). La maggior parte degli investimenti viene da Volkswagen (joint venture da 10 miliardi con la cinese Anhui Jianghuai), seguita da Daimler e Renault-Nissan.
La seconda motivazione si chiama CO2. L’Europa sta fissando limiti di emissioni sempre più stringenti, con scadenze – la prima delle quali già fissata al 2021 – che difficilmente i costruttori riusciranno a rispettare e con pesantissime conseguenze in caso di sforamento. Stando a quanto stabilito dalla Ue infatti le Case dovranno versare, per ogni veicolo venduto, 95 euro di multa per ogni grammo di anidride carbonica emessa al di sopra della soglia stabilita. In base ai calcoli dello studio PA Consulting, il Gruppo Volkswagen potrebbe dover affrontare sanzioni per 1,36 miliardi di euro, il Gruppo Fca per 950 milioni, che scenderebbero a 787 per PSA-Opel e a 430 per BMW, 307 per Ford, 283 per Hyundai-Kia e 126 milioni per il Gruppo Daimler. Solo pochi sarebbero in grado di evitare le sanzioni: Volvo, Toyota, il Gruppo Renault-Nissan e Jaguar-Land Rover.
Inevitabile quindi tentare di innalzare la quota della propria produzione ibrida e elettrica, anche a costo di azzerare il profitto. Allontanando allo stesso tempo lo spettro di uno scenario inquietante, quello di una colonizzazione cinese dei marchi, che è già in atto e sempre più verosimile considerando la tecnologia a disposizione del gigante asiatico e la crescente debolezza dei costruttori tradizionali, fiaccati da normative che faticano a sopportare. A Parigi, nel padiglione dove domina Mercedes-Benz, c’è la cinese GAC, al debutto in Europa con un maxi-Suv e una concept elettrica con 595 km di autonomia dichiarata. Lo spazio occupato dalla GAC è di due volte superiore a quello di molti marchi europei. Non è un caso, sicuramente.