Economia

La «battuta» di Poletti. Oltre l'orario c'è la partecipazione

Michele Tiraboschi e Francesco Seghezzi domenica 29 novembre 2015
Un'altra impresa e un altro lavoro nella «battuta» di Poletti L’orario di lavoro è davvero un arnese vecchio che non serve più ai moderni modi di lavorare e produrre? Sarebbe un grave errore etichettare la battuta del ministro del Lavoro Poletti come mera provocazione. Può essere, in effetti, che il Governo stia tastando empiricamente il terreno dell’opinione pubblica per la fase due del Jobs Act e cioè l’idea del cosiddetto 'lavoro agile', incentrato più sul risultato che su luogo e orario di lavoro. Ma più in profondità, almeno per chi ha a cuore una certa idea positiva del lavoro e della persona che lavora, una simile affermazione, che certo si avvicina a molti nuovi modelli organizzativi del lavoro, pone una sfida epocale rispetto alla idea di impresa e ai princìpi fondativi del diritto del lavoro, primo tra tutti quello per cui il lavoro non è una merce.  Chiarire cosa intendiamo per lavoro risulta quindi fondamentale per poter valutare il contenuto e le possibili conseguenze delle parole del ministro. Se infatti il lavoratore e la sua opera vengono intesi come un mero fattore della produzione, il pagamento a risultato non è che una modalità, invitante in un momento in cui l’industria italiana fatica ancora a uscire dalla crisi, per attuare una politica di contenimento dei salari e quindi di costi d’impresa. È infatti innegabile che la costruzione del rapporto di lavoro e della retribuzione sul risultato e non sull’orario implica lo scaricare sul lavoratore parte del rischio di impresa e questo può essere ragionevolmente accolto, e anche stimolato, in una logica di condivisione e partecipazione dell’organizzazione del lavoro e delle sue modalità, prima ancora che dei risultati. Ossia in una concezione del lavoro come strumento di relazione e di crescita comune. Diverse dinamiche del lavoro contemporaneo sembrano confermare questa idea. Se pensiamo alla manifattura, per la quale recenti dati mostrano permanenti flessioni occupazionali, logiche partecipative incentrate non tanto sulla prestazione di lavoro e sui suoi vincoli ma sui risultati, possono costruire le fondamenta per quella Industry 4.0 che è oggi al centro delle preoccupazioni e degli sforzi dei Paesi industriali avanzati come Usa e Germania. La digitalizzazione della produzione, infatti, impone spesso orari di lavoro variabili, dettati dalle commesse e dai desideri dei consumatori e non da schemi fissi decisi a monte dai contratti. Soltanto se un lavoratore può partecipare ai processi di organizzazione della produzione di queste commesse, in un logica di assunzione di responsabilità, allora sarà disposto a godere dei benefici di qualcosa che ha condiviso fin dall’origine o a pagare in parte per le sue scelte. L’alternativa a questa nuova idea di impresa è considerare il lavoratore come una pedina da poter spostare a proprio piacimento, con la conseguente perdita di responsabilità e quindi, in un sistema in cui le elevate competenze sono la chiave dell’innovazione e della permanenza sul mercato, la possibilità di mettere a rischio l’intero modello di business.  Nondimeno nell’economia dei servizi, in cui il lavoro manuale è quasi del tutto venuto a meno e in cui il concetto di condivisione (sharing economy) è ormai un vero e proprio pilastro, una impresa che si basi su logiche partecipative è l’unica che può accompagnare una prestazione di lavoro che non si basa più sugli orari fissi, spesso anche qui imprevedibili, ma sui risultati. Tutto questo apre due sfide tanto concrete quanto urgenti. La prima riguarda le modalità di valutazione del risultato, che non potranno che essere parte di quelle decisioni condivise tra lavoratore e impresa, pena uno squilibrio di poteri che non permette la necessaria fiducia reciproca. La seconda è la revisione del concetto di subordinazione all’interno del quadro regolatorio del lavoro. Se salta l’orario con esso facilmente viene a meno il luogo di lavoro, e perché questo sia possibile i lavoratori devono essere proprietari dei mezzi di produzione. Vengono così a meno le logiche del lavoro novecentesco lasciando spazio, finalmente a nostro parere, alla vera realtà della produzione e dell’impresa contemporanea che è fatta di competenze, relazioni, responsabilità e condivisione di fasi e progetti.