Lavoro. Gli unici salari aumentati sono quelli minimi
La manifestazione "Su gli stipendi, giù le emissioni" della scorsa settimana a Roma
Gli stipendi stanno inseguendo l’inflazione ma non riescono a tenerne il passo. Gli unici salari che sono aumentati più dei prezzi, dice l’Ocse nel suo ultimo rapporto sul lavoro, sono quelli minimi. Probabilmente, anche se questo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico non lo sottolinea espressamente, perché sono in alcuni casi agganciati all'inflazione e in altri fissati dagli Stati e non dal negoziato tra sindacati e imprese.
I numeri dell’ampio Employment Outlook pubblicato dell’Ocse sembrano andare ampiamente a favore di proposte di introduzione del salario minimo, come quella depositata alla Camera dalle opposizioni (esclusa Italia Viva) la settimana scorsa. Calcola infatti l’organizzazione basata a Parigi che tra fine 2019 e inizio 2023 i salari reali, cioè quellii al netto dell’inflazione, sono scesi in media del 2,2% nei ventiquattro Paesi Ocse (su trentaquattro) per i quali erano disponibili i dati.
È ovviamente effetto dell’impennata dell’inflazione, un fenomeno mondiale da cui stiamo auspicabilmente uscendo, anche se con molta lentezza. L’Italia, con il suo -7,5%, è in fondo alla classifica dei salari reali. Tra i Paesi dell’Ocse presenti nell’analisi, solo Repubblica Ceca, Estonia e Costa Rica hanno visto una maggiore perdita di potere d’acquisto per i lavoratori stipendiati.
Per i salari minimi invece la storia è diversa. Esistono in trenta nazioni dell'Ocse e in media tra dicembre 2020 e maggio 2023 sono cresciuti del 29%, superando di 4,4 punti l’aumento medio dei prezzi, che è stato del 24,6%. In molti Paesi questo aumento dei salari minimi è arrivato per precisa decisione dei governi, che con decisioni discrezionali li hanno aumentati per permettere ai lavoratori pagati meno di fronteggiare la corsa dei prezzi. In altri casi, precisamente in sei Stati dell’Ocse, i salari minimi sono direttamente indicizzati all’inflazione.
È fisiologico, per molti versi, che i salari la cui entità è decisa con la contrattazione collettiva non siano riusciti a tenere il passo dell’inflazione. I tempi del negoziato per il rinnovo contrattuale sono tradizionalmente lunghi e l’adeguamento al costo della vita avviene solo quando i rappresentanti dei lavoratori e quelli delle imprese trovano l’accordo.
Il recupero, almeno in parte, arriverà, ma chissà quando. Metà dei lavoratori italiani è coperto da un contratto collettivo scaduto da oltre due anni e l’Italia è tra i Paesi in cui i contratti collettivi vengono rinnovati con minore frequenza (in media tre anni o più). L’Ocse scrive di aspettarsi una crescita maggiore dei salari contrattuali per i prossimi trimestri, anche se con aumenti ancora sotto il tasso di inflazione medio previsto. Nei primi tre mesi dell’anno del 2023 il calo annuo medio dei salari reali è stato del 3,8% nell’area Ocse e del 7,3% in Italia.
Scrivono gli esperti dell’organizzazione nel loro focus sull’Italia: «L’indicizzazione dei contratti collettivi alle previsioni Istat dell’inflazione al netto dei beni energetici importati, recentemente riviste significativamente al rialzo, fa pensare che i minimi tabellari potranno recuperare parte del terreno perduto nei prossimi trimestri. Tuttavia, i significativi ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi (oltre il 50% dei lavoratori è coperto da un contratto scaduto da oltre due anni) rischiano di prolungare la perdita di potere d'acquisto per molti lavoratori».
L’Ocse non vede comunque il rischio che gli aumenti degli stipendi scatenino la spirale prezzi-salari-prezzi temutissima dalle banche centrali. Si tratta, piuttosto, di arrivare in ogni Paese a una giusta ripartizione dell’aumento dei costi tra governi, imprese e lavoratori. In molti settori, non solo l’energia ma anche la finanza, il manifatturiero e il turismo, nell’area Ocse la crescita dei profitti delle aziende ha superato quella dei salari. In media la distanza tra l’aumento dei margini di profitto e quello dei salari tra il 2019 e il 2023 è del 5,5%. In Italia, però, questo è avvenuto meno che altrove: la differenza è solo dello 0,85%. Questo dato è calcolato per unità di prodotto: cioè si guarda quanto l’azienda ha speso in costo del lavoro per ogni sua produzione e quanto utile ci ha fatto. La scarsità della distanza tra le due cifre in Italia non è tanto segno di buone relazioni industriali, quanto di scarsa produttività: anche come aumento dei profitti per unità di prodotto siamo infatti tra gli ultimi della classifica Ocse, anche se davanti a Francia, Portogallo, Svizzera, Irlanda e Giappone. Una magrissima consolazione.