Lavoro. Non solo rider: sulle piattaforme ci sono sempre più professionisti
“La tutela dei lavoratori di piattaforma” sarà uno dei quattro panel della giornata conclusiva del terzo forum sul Futuro della democrazia organizzato da Fondazione Feltrinelli che si conclude oggi a Milano. Il punto di partenza è che la digitalizzazione dell’economia sta trasformando il mondo del lavoro con relazioni contrattuali “instabili e non tutelate” come le descrivono gli autori Maurizio Ferrera, ordinario alla Statale di Milano, Maurilio Pirone dell’università di Bologna, Jacopo Caja e Jacopo Tramontano della fondazione Feltrinelli.
«Quello che emerge - spiega Pirone, ricercatore specializzato nella gig economy - è la mancanza di una figura egemone. C’è una grande eterogeneità sia nell’autopercezione sia nei bisogni e nelle rivendicazioni. Negli ultimi anni oltre alle figure tradizionali, rider e driver, definite location-based, si assiste ad un trasloco di professionisti che lavorano solo o anche on-line: sono psicologi, insegnanti di lingue, ma anche avvocati che forniscono prestazioni e consulenze. In generale tutto il welfare si sta “ridefinendo” tramite piattaforma» Ci sono poi i “tasker” lavoratori da tastiera che svolgono piccole attività on-line. Amazon ha creato una divisione specifica dove si offrono e cercano queste attività basiche, per le quali non servono specifiche competenze.
Il lavoro su piattaforma di fatto è un lavoro di seconda fascia. «Quando un lavoratore, ad esempio un insegnante, si sposta sul web perde le tutele che aveva nella vita reale e per di più deve pagare le commissioni alle piattaforme che si aggirano tra il 10 e il 20%. C’è poi il problema del tempo: deve auto-organizzarsi, spulciare le offerte, svolgere compiti burocratici oppure, nel caso degli affitti brevi, rendere appetibile il suo prodotto». spiega Pirone. Il tempo non retribuito, secondo un rapporto dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (Ilo), è un terzo del totale.
In molti casi, visti gli esigui guadagni, si tratta di una seconda attività. «Si sta andando verso un modello americano perché le retribuzioni sono troppo basse ed è quindi necessario avere due lavori. Inoltre le piattaforme esercitano un’influenza egemonica sul mondo dell’occupazione e diventano un punto di riferimento. Si assiste a questo livellamento, che viene definito “piattaformizzazione” del lavoro, che fa parte di un processo più ampio di disarticolazione dei contratti e salari» aggiunge il ricercatore.
Sono 12 milioni in Europa le persone che hanno un guadagno da piattaforma, 2,2 milioni solo in Italia. Le persone che offrono prestazioni sono 570mila e per più della metà (274mila) si tratta del reddito principale. Il 70% ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni e una percentuale analoga ha figli.
Gli uomini sono i tre quarti, il 30% non percepisce un salario minimo orario e la quota sale fino al 45% per le donne e al 56,6% i più giovani. Con l’eccezione di chi guadagna con gli affitti brevi, i redditi sono molto esigui: il guadagno medio si aggira sui 290 euro, quello mediano sui 450 euro. I lavoratori che svolgono mansioni nello spazio fisico sono il 65% e sono quasi tutti uomini. Tra gli aspetti critici l’uso di algoritmi che assegnano un punteggio a ciascun lavoratore e l’influenza indiretta, che riguarda soprattutto il settore della logistica, su tutti i lavoratori dell’indotto.
Tra le proposte che verranno avanzate oggi nel corso del forum alla Fondazione Feltrinelli retribuzioni minime su base oraria per contrastare l’incertezza reddituale, coperture universali di protezione sociale (malattia, permessi per neo-genitori), il riconoscimento del diritto alla “disconnessione” oggi di fatto compromesso dalla necessità di lavorare il più possibile per ottenere un buon punteggio, e la possibilità di consentire la “portabilità” dei dati, vale a dire di poter utilizzare il proprio “capitale reputazionale” (a patto che venga costruito con trasparenza dai datori di lavoro) da una piattaforma all’altra.