Economia

Dietrofront. La Francia pensa all'adieu alle 35 ore: «Non possiamo lavorare così poco»

Daniele Zappalà, Parigi martedì 5 novembre 2024

Il ministro Armand e il primo ministro Barnier in visita a una fabbrica

In pochi anni, nell’era Macron, il debito pubblico della Francia è volato alle stelle, superando quello italiano in valore assoluto: dai 2.218 miliardi nel 2017, ai 3.228 registrati lo scorso giugno. Uno scenario che spinge ormai il governo transalpino a rimettere in questione persino certi capisaldi un tempo ritenuti intoccabili. Una nuova conferma è giunta ieri, per bocca del neoministro dell’Economia, Antoine Armand, che ha suonato una campanella d’allerta a proposito degli orari di lavoro praticati nel Paese, considerati dall’attuale esecutivo come insufficienti per sormontare le sfide che il Paese ha davanti. Proprio un tema scottante, se si pensa che la settimana lavorativa di 35 ore, al suo lancio nel 2000, venne presentata come un grande progresso e vanto nazionale, all’insegna dello slogan «lavorare meno per lavorare tutti», coniato sotto il governo socialista del premier Lionel Jospin.

Ma adesso, la musica è proprio cambiata: «Ciò che dico oggi è che la quantità d’ore di lavoro in Francia non basta più per finanziare il nostro modello sociale e che se lo si vuole conservare, occorrerà lavorare di più. È una constatazione e una convinzione politica», ha lanciato Armand, ai microfoni della radio Europe1, confermando che lo stato dei conti pubblici è «estremamente preoccupante», se la Francia conta onorare davvero l’impegno, verso i partner europei, di riportare il proprio deficit al 5% l’anno prossimo, prima di stringere ancor più i bulloni negli anni seguenti. L’Europa ha rappresentato proprio il termine di paragone indicato dal ministro: «Ogni anno, i francesi lavorano globalmente meno dei nostri vicini, lungo la durata di un’annata», ha osservato, riconoscendo in qualche modo che, nella classica contrapposizione fra cicale e formiche cara a Jean de La Fontaine, il Paese è scivolato dalla parte meno lusinghiera e ammirevole. Senza correttivi, questo scenario produrrà una catena di conseguenze pericolose per gli equilibri nazionali nei prossimi anni, con «meno contributi, meno gettito fiscale e, evidentemente, meno posti di lavoro, meno occupazione, meno crescita». Certamente, considerazioni non fatte per sedurre. In ogni caso, dal sapore inedito, da parte del titolare del ministero basato sul lungosenna di Bercy, i cui funzionari sono fra l’altro noti per poter vantare gli stipendi più alti fra gli statali. Si tratta di una presa di posizione in linea con quanto paventano da tempo tanti analisti: ovvero che, in assenza di una decisa scossa e mantenendo le prassi usuali, il Paese potrebbe scivolare presto in una spirale negativa del debito senza precedenti, fra declassamenti delle agenzie di rating e un costo del denaro in ascesa.

Allargando il campo d’analisi alla scena internazionale, Armand ha sottolineato che la Francia rischia ormai pure di «essere staccata» dalle economie più dinamiche, in particolare «rispetto agli Stati Uniti e l’Asia», dove il ritmo della crescita economica «è fra 3 e 5 volte superiore». Un’analisi che stride decisamente con la retorica tradizionale della grandeur nazionale: «Dobbiamo svegliarci e lavorare collettivamente, e quando i deficit sbandano, si è meno forti e la Francia è più vulnerabile». Dunque è giunta l’ora di fare uno «sforzo assieme», in modo da salvare anche il modello pubblico attuale delle pensioni, fondato sulla solidarietà fra le diverse generazioni.

Il costo dell’immobilismo, ha spiegato il ministro, si pagherebbe pure in termini «di giustizia e di equità», proprio in una fase in cui, invece, occorre accrescere entrambi: «Occorre aiutare quelli che lavorano e occorre che il lavoro sia meglio remunerato». Dunque, più sforzi, ma con la garanzia che vengano meglio ricompensati. Armand ha spiegato che questa sarà la bussola dell’esecutivo del premier Michel Barnier, dunque pure il comune denominatore di ogni progetto riformatore nel campo delle pensioni, della formazione e dei sussidi di disoccupazione, sullo sfondo della volontà di «abbassare il costo del lavoro» per le imprese.