LA RETE IN LUTTO. Addio a Jobs: il visionario
«La morte è la migliore invenzione della vita. È l’agente del cambio. Spazza via il vecchio per far spazio al nuovo. Il nostro tempo è limitato. Non sprechiamolo». Pur essendosi sempre detto un estimatore dell’otium latino padre della creatività, Steve Jobs non ha perso un minuto della sua breve esistenza. In 56 anni ha cambiato il modo in cui comunichiamo, raccogliamo informazioni e ci divertiamo non una, ma almeno sei volte.
E se ieri i potenti della Terra si sono tolti il cappello di fronte alla morte del geniale, appassionato e irascibile fondatore della Apple, il suo impatto su molteplici generazioni è misurabile già da anni, e con una semplice passeggiata per le vie di New York. Gli iPod nelle orecchie di un ragazzo su due. Gli iPad più comuni in metropolitana dei quotidiani. I personaggi di Toy Story nelle vetrine di ogni giocattolaio. E milioni di dita di ogni età che scivolano ogni secondo sugli schermi di un telefono per aprire una foto o leggere un’email.Ma era in aforismi come «voglio lasciare il mio segno nell’universo» che ieri gli innumerevoli ammiratori di Steve Jobs cercavano la chiave del suo successo – l’elemento che ne ha fatto il grande uomo e il visionario che la storia ricorderà. «Non mi sono mai preoccupato dei numeri – ha detto ad esempio pochi anni fa – Apple si è sempre concentrata sui prodotti, perché i prodotti fanno la differenza. La pubblicità educa la gente, ma non puoi ingannarla. I prodotti parlano da soli».È stato dunque il suo idealismo la chiave di volta? Quello che negli anni Settanta, a San Francisco, gli ha fatto dire di voler creare una società «piccola, da 10 milioni al massimo», che facesse «grandi cose senza perdere la sua anima»? O è stata la sua ambizione e il talento nell’ottenere sempre quello che voleva, con un misto di fascino e arroganza, a dare vita alla Apple di oggi, che ha reinventato computer, telefoni e intrattenimento senza perdere la sua anima. E che è anche diventata il gigante da 350 miliardi di dollari che contende con la Exxon il primato della più grande azienda americana.Jobs non era un programmatore né un matematico. Sapeva di software e di hardware, ma non quanto i genii della testiera e del microchip di cui ha sempre saputo circondarsi. Eppure nessuno dubita che il successo della Apple si deve a lui, tanto irrequieto da abbandonare i corsi regolari dell’università dopo sei mesi e tanto critico da essere cacciato dalla società che aveva fondato dopo otto anni. I suoi collaboratori parlano della sua "visione", misto di quell’istinto che gli faceva prevedere i desideri dei consumatori e dell’audacia che a 13 anni gli ha fatto convincere il numero uno della Hewlett Packard a regalargli alcuni microprocessori e poi a dargli un lavoro. E insistono che senza la paura del suo giudizio e senza i traguardi inarrivabili che poneva non avrebbero raggiunto l’eccellenza che fa di Apple l’azienda più imitata al mondo. «Ti do un 4», era un suo comune commento di fronte al loro lavoro, o «il mio dovere è esigere sempre il massimo e dire di sì solo all’eccezionale».Esigente Jobs lo era soprattutto con se stesso. Nonostante l’idealismo antiaziendale che aveva respirato nella California degli anni ’60, Jobs non si è fermato di fronte alla sua prima rivoluzione, il Macintosh, che nel 1984 ha reso "personale" il computer, portandolo nelle case e rendendolo accessibile a tutti. Cacciato dalla sua azienda, ha trasformato un progetto del regista Gorge Lucas negli studi Pixar, quindi è tornato alla Apple, come Ceo, per dare vita all’iPod.
Prodotti difficili da separare dalla persona, e infatti i tributi in onore di Jobs sorti spontaneamente ieri di fronte agli Apple store di Tokyo, New York o San Francisco andavano dall’uomo alle sue invenzioni, senza quasi distinguere fra l’iconico personaggio in lupetto nero e la sua tecnologia, fra l’eleganza del design e la filosofia che lo guidava. Concentrazione e semplicità erano i principi verso i quali il complicato Jobs ha sempre aspirato, «lavorando sodo per semplificare e pulire il mio pensiero». La malattia che lo ha ucciso e che ha combattuto per 7 anni, cancro al pancreas, ha aiutato a definirlo. «Sapere che morirò presto è lo strumento più importante che abbia mai avuto. Perché tutto, le aspettative degli altri, la paura dell’imbarazzo e del fallimento, scompare di fronte alla morte».
Eppure l’uomo che ha portato Internet nelle nostre tasche potrebbe non essere mai nato. Quando la studentessa americana 23enne Joanne Schieble si era accorta di aspettare un bambino da Abdul Fattah Jandali, un immigrato siriano, sapeva che tenerlo sarebbe stato impossibile. Ma anziché abortire illegalmente, Joanne ha avuto il bambino e lo ha dato in adozione a una modesta famiglia armeno-americana, che lo ha allevato con amore. Permettendogli di diventare quello che è diventato.